LE POLIS
Atene e Sparta nell’antica Grecia sapevano di essere le due polis più influenti e potenti. In esse erano rappresentate due diverse modalità di governo e, in generale, due stili di vita simmetricamente opposti: da un lato la democrazia, dall’altro la tirannia; da un lato l’assemblearismo, dall’altro una società rigidamente gerarchica da cui i più deboli erano estromessi.
Warriors e Cavs sanno di essere i più forti. Da ormai tre anni sono assoluti dominatori della lega, tanto che non sono mai mancati all’appuntamento di inizio giugno. In questa stagione poi si sono rivelati anche più forti delle precedenti, visto il record di 12-0 con cui i Warriors sono arrivati alle Finals e l’11-1 dei Cavs a Est. Cleveland ha cercato di mantenere il titolo provando ad allungare la panchina con giocatori d’esperienza, come Korver e Deron Williams; mentre Golden State ha preferito puntare sulla qualità disarmante di un giocatore, Kevin Durant, più che fondamentale in questa stagione.
E così come le due città-stato greche, anche le due franchigie NBA hanno messo in mostra due attitudini assimetricamente diverse: a Oakland la palla gira come una trottola, si attacca di ‘flow‘, si gioca con un ritmo elevatissimo. In Ohio la circolazione è gestita con più calma, si sfruttano più gli isolamenti e le attenzioni sono in gran parte concentrate su un singolo giocatore (neanche a dirlo) LeBron James.
CAVS O WARRIORS?
Le Finals 2017 sono arrivate come evento necessario per rendere epica questa rivalità, che probabilmente continuerà a imperversare nei prossimi anni nella lega più famosa del mondo. La pressione prima dell’inizio delle ultime gare della stagione, quelle che contano di più, era altissima, in particolare per Golden State, che da un anno prepara la sua vendetta. Dopo la sanguinosa sconfitta a Oakland in gara-7, l’arrivo di KD e il derivante sospetto di essere la squadra più forte di sempreha messo ancora più peso sulle spalle di Golden State e di Kerr, obbligato più che mai a vincere. Ma così come in California, anche in Ohio le aspettative erano alte: la squadra un anno fa ha strappato il titolo alla squadra da “record without ring” e in più da quando è tornato a casa, LeBron James ha inserito il germe di vittoria nella testa di tutti i tifosi Cavs.
A partire da gara-1 le sfide sono state ad altissima intensità, con ritmi sovrumani (114.8 di offensive rating per Golden State nelle prime tre gare della serie ne sono un esempio) e partite a tensione elevata, con tanti falli e scontri fisici. Da subito, anche a causa della velocità incredibile con le azioni si susseguivano, è apparso chiarissimo come Golden State volesse mantenere immacolata la suo striscia di post season e come la sfida di Cleveland sarebbe stata ai limiti dell’impossibile: il set offensivo e difensivo dei californiani è stato davvero troppo ampio per chiunque, con tantissime scelte in attacco.
Dalle triple di Curry e Thompson, passando per gli isolamenti di Durant, l’attacco andava alla grande; e la difesa non stava a guardare, con i candidati a Defensive Player of the Year, Thompson, Durant e Iguodala, finora straordinari nel marcare gli attaccanti più pericolosi dei Cavs. La squadra di coach Lue è però riuscita col passare dei minuti a concentrarsi sulle situazioni che potevano mettere in difficoltà gli avversari e, dopo le prime due partite, finite in anticipo con minuti di garbage time e in generale sempre guidate dai Warriors, in gara-3 sono arrivate a mettere davvero in ginocchio Curry e compagni nella terza sfida.
Il risultato della serie era però 3-0: cosa non ha funzionato? Sembrerebbe incredibile, ma praticamente nulla. LeBron e Irving hanno combinato per 77 punti, Love è stato un fattore a rimbalzo offensivo, Smith, Korver e Jefferson sono stati finalmente utili dal punto di vista realizzativo. I Cavs hanno attaccato la gara nel 3/4, facendo registrare un +11 di differenziale nel quarto che di solito era terreno di dominio dei californiani, ma i Warriors hanno dimostrato solidità mentale e hanno dato una dimostrazione di forza che rischiava di avvilire davvero Cleveland.
Guidati da Durant, riposatosi per parecchi minuti durante seconda e quarta frazione e pieno di energie negli ultimi minuti, ha guidato alla riscossa la sua squadra. Cosa può fare di più Cleveland? Probabilmente poco. Limitare gli errori, tirare meglio da 3 (22%) e provare ad arrivare con più energia al finale di partita, oltre a pregare che per una volta qualcosa negli ingranaggi dei californiani non funzioni come dovrebbe.
FINO ALLA FINE
E così è stato: i Cavs hanno migliorato più che notevolmente le percentuali del tiro da 3, hanno infiammato la Quicken Loans Arena dal primo quarto, chiuso con 49 punti a 33 (record per una finale NBA). Senza nulla temere, ogni tiro sembrava andare dentro con leggiadria, senza timore reverenziale, senza paura di sbagliare, perché quando non c’è più niente da perdere è così che si fa. Per quattro quarti Cleveland si è trasformata nello spirito di 300 spartani chiusi tra le rocce delle Termopili, a combattere il fiume in piena Warriors che tentava di risalire quarto dopo quarto. Ma il Re non ha mollato, Irving non ha smesso un attimo di fare ‘ball-handing’, Smith continuava a centrare il canestro dall’arco come il miglior cecchino.
Adesso si ritorna in California, tra le mura amiche di Kerr e ragazzi, dove tutto sembra scontato, ma l’anno passato insegna a non mollare mai. Fino alla fine con le unghie e con i denti, con la maglietta dentro i pantaloni e il paradenti in bocca; perché ci saranno ancora spinte, manate, schiaffi (come quello di Green a Shumpert) e, soprattutto, spettacolo. perché queste due squadre, questi fantastici giocatori dei nostri tempi, quello stanno facendo: ci stanno dando uno spettacolo da guardare, con il cuore in gola e il fiato spezzato, con la bocca aperta e gli occhi a un passo dalle lacrime.