Fra pochi giorni sapremo chi sarà il successore di Carlo Tavecchio alla presidenza della FIGC. Alle votazioni, che si terranno il 29 Gennaio a Fiumicino, dovrebbero presentarsi tre candidati:
- Gabriele Gravina, attualmente presidente della Lega Pro,
- Cosimo Sibilia, senatore e presidente della LND,
- Damiano Tommasi, ex calciatore e presidente dell’AIC.
Il condizionale è voluto e non casuale, poiché strategie e alleanze delle ultime ore potrebbero far sì che uno di loro ritiri la propria candidatura prima del fatidico giorno. Per eleggere il nuovo presidente sono previsti tre scrutini: per vincere al primo colpo bisognerà ottenere il 75% dei voti (evento altamente improbabile), al secondo turno serviranno i 2/3 dei voti (difficilissimo), mentre al terzo e ultimo tentativo basterà la semplice maggioranza, che eventualmente potrà essere raggiunta anche con un ballottaggio tra i due candidati che avranno ottenuto il maggior numero di voti. Esiste anche l’ipotesi di un commissariamento della FIGC da parte di Malagò, ma solo in caso di mancato raggiungimento del quorum. Ipotesi che in realtà appare remota, perché molto temuta dai nostri Signori del Calcio.
#cambiamoilcalcio pic.twitter.com/7tFX77WhMu
— Damiano Tommasi (@17tommasi) January 7, 2018
Negli scorsi giorni un hashtag ha riscosso molta popolarità sui social, stimolando in poche ore diversi argomenti di dibattito: #cambiamoilcalcio. Non solo un hashtag con cui dilettarsi in discussioni virtuali sul web, ma un vero e proprio slogan che Damiano Tommasi ha scelto di associare alla propria candidatura. Il presidente dell’Associazione Italiana Calciatori ha proposto ai tifosi di avanzare delle idee che possano migliorare il calcio italiano, e si è impegnato ad inserire nel suo programma le tre che avrebbero raccolto il maggior numero di voti. O meglio, il maggior numero di likes.
Non sappiamo quali proposte usciranno vincitrici da questo contest, né sappiamo se sarà effettivamente Tommasi a sedersi sulla poltrona del fu Carlo Tavecchio. Ci piacerebbe però che il prossimo presidente della FIGC, chiunque egli sia, portasse avanti con fermezza alcune questioni di primaria importanza per iniziare un processo di rinnovamento. Vorremmo un presidente voglioso di cambiare il calcio, ma per davvero.
Queste sono alcune proposte.
Riforma dei campionati
«Livello del campionato troppo basso. Deve essere uno spunto di riflessione, anche per quanto riguarda il numero di squadre».
OK, allora non sono l'unico a pensarlo#SerieA #ItaliaSvezia @chiellini pic.twitter.com/Ji3z1owdDc
— Andrea Brescia (@ndy_bs) November 9, 2017
Una delle riforme più urgenti riguarda il numero di squadre professionistiche, e di conseguenza della struttura di Serie A, Serie B e Serie C.
Già in altre occasioni abbiamo mostrato preoccupazione per l’abbassamento del livello medio nella Serie A. Anche gli addetti ai lavori, calciatori compresi, hanno sottolineato che il campionato italiano è diventato poco allenante rispetto alla competitività delle coppe europee. Si tratta di un discorso che andrebbe affrontato più nel dettaglio, ma ci limitiamo a citare solo alcuni dati anomali a testimonianza di questo processo: una sola squadra che (per quanto forte) vince il campionato per diversi anni consecutivi, un numero di punti mediamente più alto delle prime 3-4 della classifica, un numero di punti mediamente più basso delle squadre che lottano per non retrocedere e, last but not least, gli scarsi risultati ottenuti nelle coppe europee. Juventus a parte, gli unici traguardi degni di nota raggiunti nelle ultime 7 stagioni sono state le semifinali di Europa League raggiunte da Napoli e Fiorentina nel 2014-15. Oltre ciò, poco di cui andare fieri. E se da un lato bisogna considerare che le squadre forti stanno diventando sempre più forti, demolendo record che resistevano da decenni nei rispettivi campionati, bisogna anche notare che in altri paesi il numero di squadre che arriva in fondo nelle coppe europee è più alto. Dal 2011 ad oggi, la Spagna ha portato 8 squadre diverse (Athletic Bilbao, Atletico Madrid, Barcellona, Celta Vigo, Real Madrid, Siviglia, Valencia, Villareal) fino alle semifinali di Champions League ed Europa League, conquistando complessivamente 9 coppe; l’Inghilterra 4 (Chelsea, Liverpool, Manchester City, Manchester United) portando a casa 3 coppe; la Germania 3 (Bayern Monaco, Borussia Dortmund, Shalke), portando a casa una Champions.

Se il livello del calcio italiano si sta abbassando, questo sembra dipendere dal numero di squadre che partecipano ai nostri campionati di Seria A, Serie B e Serie C. Più in generale, sembra eccessivo il numero di squadre professionistiche militanti in Italia. Vero che rispetto agli anni passati sono già stati fatti dei passi in avanti: sembrano lontani i tempi in cui potevamo “vantarci” del record di 132 squadre pro, ridotte anche per colpa della crisi economica. È anche vero però che le attuali 99 squadre sono davvero troppe se raffrontate agli altri campionati europei.
In Inghilterra il calcio professionistico si struttura su 4 livelli, ciascuno a girone unico, e conta in totale 88 club. In Germania soltanto i primi tre livelli sono pro, e anche in questo caso a girone unico: qui giocano complessivamente 56 squadre. In Spagna e in Francia soltanto i primi due campionati, assimilabili alle nostre Serie A e Serie B, sono professionistici, mentre già dalla terza serie abbiamo a che fare con realtà semi-professionistiche. Qui le squadre professionistiche sono, rispettivamente, 42 e 40.
Tornando a osservare in casa nostra, notiamo che soltanto nella Lega Pro militano 60 squadre professionistiche. Cifra che in realtà difficilmente viene raggiunta, poiché ogni anno si pone il problema di completare l’organico, e a volte neppure i ripescaggi bastano a coprire il vuoto lasciato dalle società fallite. Attenzione: questo non vuol dire che il calcio italiano debba trasformarsi in una élite di pochi, chiudendo ogni possibilità di ascesa a realtà medio-piccole. Si tratta, però, di creare una nuova dicotomia tra il calcio professionistico e quello semi-pro o dilettantistico, diversa da quella attuale. Per come è strutturata oggi, la Lega Pro è un campionato di enormi contraddizioni, poiché pone sullo stesso livello sportivo e finanziario 60 squadre diverse che, evidentemente, sullo stesso livello non possono essere. A fare da sfondo è la grande illusione creata dalla nuova formula del play-off, che permette a ben 28 di loro di ambire alla promozione anche dopo un campionato modesto. Lo abbiamo già detto parlando della Serie B ma urge ripeterlo: che interesse può esserci a formare rose di alto livello se, a campionato finito, squadre che hanno chiuso con piazzamenti mediocri e decine di punti in meno hanno le stesse possibilità di raggiungere la promozione?
Tutti questi aspetti andranno affrontati dal futuro presidente con massima serietà e determinazione: il numero di club della Serie A, della Serie B e in particolar modo della Serie C va ridotto, e vanno ripensati i meccanismi di promozione e retrocessione, magari eliminando i play-off in Serie B e riservandoli ad un numero ridotto di squadre in Serie C. Altrimenti casi come quello del Parma nel 2015 e di Modena e Vicenza in questa stagione diventeranno sempre più frequenti.
Gli stadi
Quello sugli stadi è un problema annoso, che si protrae senza soluzione ormai da tempo immemore. I problemi sono sempre i soliti: i nostri impianti sono vecchi, sporchi, insicuri e scomodi. È una questione che si collega direttamente al tema degli stadi di proprietà, ma che in realtà prosegue anche oltre. Tanti club italiani hanno fatto poco o nulla, negli ultimi decenni, per migliorare gli stadi di cui fanno uso e renderli più accessibili e confortevoli. La ragione principale è che queste strutture non appartengono alle società, ma vengono affittate dai comuni. Diventa quindi difficile (se non pleonastico) chiedere ai presidenti di investire su impianti che non sono di loro proprietà.

Ad ogni modo c’è un aspetto oggettivamente insindacabile: in Italia si va poco volentieri allo stadio. Secondo l’ultimo rapporto della EPFL (ovvero, la Scuola politecnica federale di Losanna) la presenza media di spettatori in Serie A si ferma a circa 22.000, contro i 41.000 della Bundesliga e i quasi 36.000 della Premier League. Si potrebbe obiettare che le nostre cifre siano condizionate dal fatto che alcuni stadi della Serie A abbiano una bassa capienza. Ebbene, se andiamo a considerare le percentuali di riempimento degli stadi, ci rendiamo conto di quanto la nostra situazione sia ancor più negativa: infatti nel rapporto della EPFL la Serie A si classifica addirittura al 9° posto per percentuale media di riempimento degli stadi. In testa a questa graduatoria, come è facile immaginare, ci sono ancora la Premier League e la Bundesliga, che riempiono rispettivamente il 94,8% e il 92,8% dei loro impianti. Anche la Liga ottiene buoni risultati, raggiungendo il 72,6%. Il confronto con la Serie A, che arriva soltanto al 54,5%, è impietoso. A destare ulteriore preoccupazione è una tendenza che negli ultimi anni è orientata verso il basso, che fa da contrasto con i progressi ottenuti da Inghilterra, Germania e Spagna. Ed evidentemente non si tratta di un problema di passione, dal momento che in Italia il calcio è quotidianamente tra gli argomenti di dibattito.

Se persino in Olanda, Norvegia, Scozia e Belgio si arriva a una percentuale superiore di tifosi negli stadi, qualche domanda bisognerà farsela. Il futuro presidente della FIGC dovrà abbandonare la politica di laissez-faire che ha contraddistinto i suoi predecessori e intervenire su questo tema. Ovviamente la medesima richiesta vale anche per società e amministrazioni comunali, senza tralasciare le responsabilità di chi sarà al governo. Altrimenti si continuerà a non andare da nessuna parte.
Soglia minima di calciatori italiani
In primo luogo è necessaria una precisazione: non stiamo parlando di un tetto al numero degli stranieri, bensì di una soglia minima di calciatori di nazionalità italiana all’interno dei settori giovanili. Si fatica infatti a comprendere in base a quale logica si possano attribuire i mali del calcio italiano alla presenza dei giocatori stranieri in Serie A. Non si può negare che negli ultimi dieci anni il numero di stranieri sia cresciuto in modo elevato, passando dal 35% all’attuale 54,2%, eppure un confronto con gli altri campionati europei lascia intendere che non sia questo il nucleo del problema. Stando ai dati del CIES, l’Osservatorio del Calcio, ci sono tre paesi che impiegano nei loro principali campionati un numero di stranieri maggiore rispetto al nostro, escludendo da questo conteggio le federazioni minori: l’Inghilterra (66,4%), il Belgio (60%) e il Portogallo (59,1%). Sarà anche vero che la nazionale inglese è un’eterna incompiuta del calcio europeo e che ha spesso deluso negli appuntamenti importanti, ma non ha avuto problemi a qualificarsi ai Mondiali di Russia. Stesso discorso per i Diavoli Rossi, squadra che negli ultimi anni è cresciuta esponenzialmente tanto da essere considerata come una delle più forti della storia belga. Superfluo dire qualcosa sul Portogallo, campione d’Europa in carica. E anche la Germania campione del mondo non ha una percentuale così inferiore alla nostra (50,1%), come la Francia vice-campione d’Europa (48,9%). Insomma, appare chiaro che il problema non sia questo.

Ampliando il discorso e affrontandolo da una diversa prospettiva, può essere utile analizzare quanti giocatori italiani giocano oggi all’estero. È ancora il CIES a fornirci dei dati interessanti. Scopriamo così che rispetto a Francia (781), Inghilterra (451), Spagna (362) e Germania (362) sono davvero pochi i calciatori italiani che trovano fortuna e spazio in campionati stranieri: soltanto 150. Neppure la metà rispetto alle nazionali sopra elencate. Sarà che i nostri giocatori hanno, al giorno d’oggi, meno qualità rispetto al passato?
Attualmente le squadre di Serie A sono tenute ad avere in rosa un numero massimo 25 giocatori, di cui 4 cresciuti nel proprio vivaio e 4 cresciuti in un altro vivaio italiano. Non basta però imporre delle soglie minime alle squadre di Serie A, e più in generale serve a poco farlo soltanto con le squadre professionistiche: il problema ha radici più profonde, che riguardano la crescita e la formazione del calciatore, fin da quando è bambino. Servirebbero poi dei modelli generali e chiari da seguire, identici a livello nazionale e da far rispettare rigorosamente alle federazioni locali. Il futuro presidente della FIGC dovrà sicuramente apportare delle novità, magari prendendo qualche utile spunto dal modello spagnolo. Visto il recente flop degli Azzurri, non possiamo permetterci di perdere ulteriore tempo.
Conclusioni
Abbiamo esposto soltanto tre idee che potrebbero migliorare il calcio italiano, ma i temi non si esauriscono certamente qui. Ci sarebbe da parlare di giustizia sportiva, del calcio femminile, dell’eventualità di introdurre le seconde squadre (meglio se in un campionato a sé stante), di una riforma della Coppa Italia e di tanti altri argomenti.
Resta fermo un aspetto: deve esserci la volontà, da parte di tutti i protagonisti di questo gioco, di cambiare veramente il calcio italiano. Sapere che 10 club di Serie A su 20 erano pronti a dare il proprio sostegno a Lotito, figura che al di là degli evidenti conflitti di interesse avrebbe rappresentato un perfetto continuum con la gestione Tavecchio, lascia qualche ombra di pessimismo.
Speriamo di sbagliarci.
La Serie A negli ultimi anni si è impoverita di livello: chi ha vinto il campionato negli ultimi anni (in questo caso la Juventus) con troppa facilità ha superato gli 85 punti in più di una stagione. Anche quest’anno al momento il Napoli e la Juventus stanno viaggiando con ritmi molto alti. C’è molto divario tecnico tra chi è primo in classifica e chi è magari quarto o quinto. La stessa cosa vale anche per le posizioni basse. Riformare la B facendo in modo che le squadre che effettivamente arrivano nelle prime posizioni vengano promosse (eviterei un caso Benevento). Abolirei i play-off e play-out. Capitolo stranieri e stadi: Germania e Portogallo vincitrici degli ultimi tornei hanno più stranieri dell’Italia.
In ultimo, gli stadi italiani hanno bisogno di essere riqualificati, anche se per farlo servono progetti a lungo termine con interessi in ambito architettonico, urbanistico e paesaggistico.