Esempio di libertà
Prendere posizione, sempre. In campo e in montagna. Prendere posizione, sempre. Per riconquistare la palla o per riprendersi la libertà. Questo è stato Bruno Neri. Anzi lo è ancora. Perché i simboli non muoiono, ma cambiano forma. Perdono la dimensione terrena e corporale, ma ne acquistano una più sacra che rimane immutabile, anche se lontana. Diventano classici e per questo, nonostante siano così distanti da noi per il tempo passato, per il contesto dal quale vengono fuori, per il nostro modo di pensare, hanno comunque qualcosa da insegnarci. È la storia del “mediano partigiano” morto ammazzato in montagna per la libertà.
Ragione e lotta
Ragione e lotta. Lì a metà campo per rubare palla agli avversari. Ragione e lotta. Sulle colline a combattere un esercito oppressore. Due costanti che hanno segnato la vita di Bruno Neri, ne hanno scandito l’essenza, quella di una figura assolutamente particolare e del tutto irripetibile. La nostra storia, la sua storia, non parte però da situazioni drammatiche. Certo, durante i suoi 34 anni attraversa due conflitti mondiali, ma è un normale figlio della piccola borghesia italiana del tempo, quella che ha le mani forti di lavoro, ma che può dire di passarsela bene. Non c’è lo spettro della fame, ma c’è tanto sudore, quello che rende più duri e con la schiena dritta. La storia di Bruno Neri è ancora più straordinaria proprio perché calata in una vita normale. La differenza sta tutta qua, nell’intendere come normalità una scelta di vita del genere, una simile presa di posizione.
Nel 1917 Antonio Gramsci dà alle stampe una rivista: La città futura. Siamo ben prima del fascismo e quindi, di conseguenza, dell’antifascismo, ma già qui Gramsci delinea un dogma, quasi un atto di fede, che Bruno Neri e tanti altri partigiani faranno proprio. L’intellettuale sardo apre una sua riflessione pubblicata sulla rivista così.
Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano.
Vivere veramente, fino a morire su in montagna.
Prese di posizione
Durante l’adolescenza della sua vita normale Bruno è un ragazzino palesemente più dotato degli altri col pallone. È del 1910 ma già nel ’26 è titolare nel Faenza, la squadra della sua città, che milita nella Seconda Divisione, una sorta di Serie B. Nel ’29 lo compra la Fiorentina per diecimila lire, che non sono i 180 milioni del PSG per Mbappè, ma per l’epoca la cifra era più che considerevole. Alla Viola rimane sette anni, che sono quelli della sua maturazione calcistica e umana. È qui che nel ’31 mostra già la sua concezione della vita, sempre senza abbassare la testa, e lo fa proprio in campo.
È la partita inaugurale dello stadio di Firenze, che ora conosciamo come Artemio Franchi, ma che allora era intitolato a Giovanni Berta, lo squadrista fiorentino ucciso dai comunisti. Anche il presidente della Fiorentina è un fascista convinto. È il marchese Luigi Ridolfi Vay da Verrazzano, vero e proprio pioniere dello sport italiano, per più anni presidente della federazione d’atletica e poi della FIGC, oltre che più volte eletto alla Camera. È lui ad aver costruito lo stadio a Firenze e il centro sportivo di Coverciano – ora quartier generale della nazionale – ed è davanti a lui che Bruno Neri mostra platealmente la sua caratura morale. Subito dopo l’ingresso in campo i giocatori di entrambe le squadre si rivolgono alla tribuna con il tipico saluto romano. Lui no. Ha le braccia lungo il corpo, composto. Ha preso una posizione, com’era abituato a fare.
Lotta consapevole
La Resistenza italiana è uno dei fenomeni storici più complessi del secolo scorso. Soffiando via una sottile patina mitizzante viene fuori un panorama variegato. Tanti erano quelli che si univano ai partigiani per i motivi più disparati: c’erano i renitenti alla leva, ex militari allo sbaraglio dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43 e chi più ne ha più ne metta. Tanti però, tra i quali Bruno Neri, avevano una profonda consapevolezza e convinzione di stare dalla parte giusta e di combattere per qualcosa di nobile.
Gli anni a Firenze sono quelli in cui Bruno matura, come calciatore e come uomo. Frequenta il caffè Le Giubbe Rosse, ritrovo di tutti gli intellettuali del capoluogo toscano, legge Montale, le prime poesie di Pavese, si è anche iscritto all’università, l’Istituto Orientale di Napoli. È troppo sveglio per obbedire e basta, per non dire la sua. Ha troppi strumenti per comprendere quello che succede per non fare nulla. È la dimensione intellettuale del “ragione e lotta” di prima che lo ha sempre caratterizzato.
Nel frattempo con la Fiorentina va più che bene. Arrivano le prime convocazioni nell’Italia di Pozzo, con gente come Meazza e Piola, e nel ’36 passa alla Lucchese del maestro Erbstein (che morirà poi con il suo Torino nella tragedia di Superga). Nel ’37 approda proprio al Torino, dove ritroverà l’ungherese in panchina. Veste la maglia granata per 3 anni prima di ritirarsi. Chiude una carriera ricca di soddisfazioni, ma ora tocca alla parte più tragica e al contempo più fiera della sua vita.
Berni
È il momento di mettere in campo quel moto di spirito che lo percorreva, certo un campo diverso rispetto a quello con linee, pali e traverse, fatto di sentieri di montagna, boschi e nascondigli in casolari isolati. Nel 1943 è proprio Bruno Neri a creare l’ORI – l’Organizzazione della Resistenza italiana, una sorta di ordine di raccordo. Non si limita a questo. È nel battaglione Ravenna e ha “Berni” come nome di battaglia, lui che – non vedendo tanto la porta – di battaglie in mezzo al campo ne ha fatte tante, magari anche nel fango come su in montagna, ma sempre un po’ per gioco con quel pallone tra i piedi. Ora per il ragazzo di Faenza le partite sono altre e perdere ha un costo maggiore.
È il luglio del ’44. Con la bella stagione la montagna è meno dura e le operazioni si intensificano. Durante una di queste Bruno Neri, o Berni, è con l’amico Vittorio Bellenghi, anche lui di Faenza, e insieme devono controllare la strada nei pressi di Gamogna per dare il via libera al resto del battaglione. Dopo una svolta, con divise, fucili ed elmetti – non magliette e pantaloncini – quindici tedeschi si parano davanti a Bruno e Vittorio. Troppi. È l’ultima partita. Ragione e lotta non bastano, è il fischio finale.
Take a stand
Lo dicevamo all’inizio: questa storia ci insegna qualcosa pur essendo così lontana nel tempo e nel contesto. Riapplicarla al presente, dosandola e facendo i dovuti distinguo, permette di usarla come esempio in casi attuali che somigliano anche solo in lontananza a quelli passati.
L’attualità ci riporta alla più grande presa di posizione da parte di atleti contro il governo USA. Sono l’NFL e la NBA a dire no a Trump, le due leghe più importanti, in cui la componente afroamericana è ricchissima. Probabilmente Lebron James (che ha alzato notevolmente il polverone) e colleghi non avranno letto Gramsci, ma più vicine a loro sono le parole di Joey Badass, rapper newyorkese: Who will take a stand and be our hero, for my people?
Take a stand. Prendere una posizione. In campo e fuori, nelle piccole e nelle grandi battaglie. Vivere da partigiani, con l’animo da mediano, sempre tra ragione e lotta, per essere esempi in futuro. Come Bruno Neri, il mediano partigiano, morto facendosi chiamare Berni, sempre a testa altra tra centrocampo e collina.