Bouaké, Costa d’Avorio, inizio degli anni ’80. La seconda città più grande dello stato africano è, senza dubbio, anche una delle più povere: qui gli abitanti lavorano per lo più nelle piantagioni di cotone, ma ci sono anche alcuni individui impegnati nella guerra civile scatenata dal regime pseudo-dittatoriale del presidente Houpouet-Boigny. E’ in questo clima di terrore che Mory Touré e moglie danno alla luce un bambino il 13 maggio 1983, il terzo della famiglia. C’è già Aicha, che è la più grande e l’unica femmina, e c’è anche il piccolo Kolo Abib, nato due anni prima; mamma e papà Touré decidono che il nome del neonato sarà Gnégnéri Yaya. E sarà l’inizio di una storia incredibile.
Come tutti i bambini, Yaya si avvicina subito al calcio. Per lui, come per altri giovani della sua età, il pallone è l’unico modo per sfuggire alla sanguinosa quotidianità della terra degli elefanti, ed a quel mondo che già da piccoli li vuole troppo vicini agli adulti: un motivo per sorridere e dimenticarsi del resto mentre sullo sfondo impazza il finimondo. Ed è giocando che, un giorno, uno scout – tale Patrick van Reijendam – lo nota e gli fa fare un provino per l’ASEC Mimosas, la squadra più titolata del paese dove già giocava il fratello Kolo. Il risultato è stupefacente: Yaya viene subito inserito nelle giovanili del club.
Nei primi mesi, però, è forte la nostalgia dei genitori e di quella Bouaké che distava quasi 4 ore e che restava il “luogo dell’infanzia”. Nell’academy della squadra rimarrà 5 anni, di cui l’ultimo con qualche presenza sporadica in prima squadra. Accadde quindi che il Beveren, squadra belga, volesse tesserare giovani calciatori ivoriani per mostrarli (per poi rivenderli) alla concorrenza europea, e uno dei 14 prescelti fu proprio lui.
Europa chiama, Yaya Touré risponde.
Già il solo fatto di poter togliere dalla povertà la sua famiglia (che nel frattempo si era arricchita di un quarto figlio, Ibrahima) fu una grandissima vittoria per il calciatore. Ma per la prima volta nella sua vita, Yaya era completamente solo. C’è un intero emisfero a dividerlo dal suo paese natale, e quale modo migliore di non pensare al passato se non continuando a giocare? In Belgio si vive molto bene, e la comunità di calciatori conterranei influisce positivamente sul morale del giocatore. Le sue prestazioni lo portano da subito ad essere titolare inamovibile della squadra, e dopo appena 2 anni viene venduto al Metalurh Donetsk. In Ucraina, però, la storia è diversa: il campionato non è dei più ambiti a livello europeo, e dentro di sé l’ivoriano incomincia a pensare che se non vuole finire nel dimenticatoio prima ancora di iniziare, l’unico passo da fare è quello di cambiare aria e nazione. Arriva allora l’interesse dell’Olympiakos, senza alcun dubbio uno dei “trampolini” più efficaci per mostrarsi a livello europeo; “questo è il nuovo Patrick Vieira” è solo una delle tante frasi pronunciate dai giornalisti già alla sua presentazione, vedendo le enormi leve su cui poggia l’ivoriano dotato di un fisico straripante. Per quanto rimanga sempre qualche dubbio sulle nomee assegnate dagli esperti ai giovani giocatori in procinto di sfondare, Yaya Touré mette tutti d’accordo: a fine anno vince il double campionato-coppa, e riscuote l’interesse di tutti i più grandi club europei.
Durante l’estate 2006 partecipa ai Mondiali di calcio, ed è al termine di questi che firma un contratto per il Monaco. Qui l’ambiente è certamente migliore rispetto a quello delle passate stagioni: di fronte ha, infatti, uno dei campionati migliori a livello mondiale, e non è alle prese con una lingua sconosciuta (la Côte d’Ivoire, infatti, è stata una colonia francese).
Yaya pensa di aver trovato l’Eden, ma si sbaglia di grosso. Il tecnico László Bölöni ad inizio stagione nemmeno lo considera, ma i risultati altalenanti dei primi mesi danno pienamente torto al tecnico rumeno, che viene cacciato. Con il suo successore, Laurent Banide, il centrocampista ivoriano diventa un elemento fondamentale della squadra, malgrado una prima parte di stagione completamente buttata al vento. Grazie ai suoi gol e alla sua perseveranza, il Monaco si salva.
Nell’estate del 2007, tuttavia, il fax della società monegasca comincia a “vomitare” richieste di trasferimento: tutti vogliono quel numero 15, re del centrocampo dello Stade Louis II. Molte squadre bussano alla porta, una sola ha il permesso di entrare nel Principato: il Barcellona riesce a strapparlo alle altre big del calcio europeo, Yaya è sulla cresta del mondo.
A 24 anni, anche se con una carta d’identità di tutto rispetto, non è facile far parte di un gruppo affiatato e vincente come quello catalano, e non è semplice entrare nei meccanismi perfettamente collaudati di Frank Rijkaard grazie ai quali l’anno prima è salito sul tetto d’Europa. Ma l’ivoriano è un duro, e per uno che è riuscito a sopravvivere ad una guerra civile questo è niente. Maglietta blaugrana numero 24, pantaloncini blu, scarpe Puma: questo basta a Yaya per essere buttato nella mischia.
Il primo anno con il mister olandese è povero di trofei ma ricco di presenze e di prestazioni convincenti, che lo portano a scalare le gerarchie della formazione e a diventare titolare imprescindibile dello scacchiere blaugrana. Il condottiero olandese alla fine dell’anno viene esonerato, dopo il secondo anno consecutivo orfano di coppe; al suo posto, si affaccia per la prima volta al calcio che conta Josep Guardiola, meglio conosciuto come Pep, proveniente dalla cantera e reduce dalla promozione in Segunda Division con la squadra B. Con lui salgono in prima squadra anche alcuni membri delle giovanili, come Sergio Busquets, che da subito si piazza nella porzione di campo solitamente occupata dall’africano: sarà la fine della storia tra Yaya Touré e il Barcellona. Nei primi due anni manageriali Pep vince 8 trofei, ma nella nuova filosofia calcistica del tiki-taka non riesce a trovare spazio per l’ivoriano. L’unico posto libero sembra essere quello della panchina del Camp Nou, ed è per questo che Yaya e il Barça decidono di separarsi.
Sicuramente, considerato l’appeal, per Touré non sarebbe stato difficile firmare un nuovo contratto per un top club. Mancini, allora allenatore del Manchester City, nell’estate 2010 si presenta con un’irrinunciabile offerta da 24 milioni e riesce a strappare il “sì” del calciatore. In quel nuovo numero di shirt scelto, il 42, il contrario di quel 24 comparso più volte nel corso della sua vita e diventato ormai un tratto caratterizzante, si nota tutta la voglia del calciatore di abbandonare gli ultimi anni dal sapore amaro, e di ricominciare a scrivere una nuova storia. Da quel luglio 2010, Yaya Touré diventa un simbolo dei Citizens, uno dei giocatori più importanti della storia del club e fra i massimi esponenti del centrocampo a livello mondiale. Il suo stile di gioco migliora allenatore dopo allenatore, e la sua sete di vittorie lo porta a vincere trofei in campo nazionale e internazionale, di squadra e individuali (per 4 volte, infatti, sarà eletto calciatore africano dell’anno, l’unico insieme al camerunese Eto’o a vincerlo così tante volte).
Con la maglia della sua nazionale riesce, insieme al fratello Kolo, a vincere la Coppa d’Africa e a dedicare la vittoria al fratello Ibrahima, tragicamente scomparso l’anno precedente a causa di un tumore.
Oggi, 13 maggio 2016, Yaya Touré compie 33 anni. Metà della sua vita l’ha trascorsa cercando di salvare la pelle e inseguendo il suo sogno di diventare calciatore, l’altra metà gli è servita a diventare uomo e ad affermarsi sul palcoscenico internazionale. E come gli elefanti africani, che in punto di morte camminano tanto fino a raggiungere il proprio cimitero, così anche Yaya, dopo aver viaggiato tanto, appenderà le scarpe al chiodo…ma fortunatamente per noi non è ancora arrivato questo momento. Perché anche se dentro di lui scorre il sangue degli éléphants, la via del tramonto può ancora aspettare.
Bon anniversaire, Yaya Touré.