E, come per magia, rieccoci qua.
A Firenze, in pieno centro, a due passi dal Duomo e dalla Cupola del Brunelleschi. Non c’è modo migliore, per respirare l’aria di una città, che girovagare tra le strade della città stessa. È agosto e, come in ogni altro grande centro abitato che si rispetti, l’afa diurna raggiunge picchi insopportabili, a tratti dannosi. Che poi Firenze di grande non ha altro che il nome, ma va bene così. D’altronde è proprio l’orgoglio del suo popolo che rischia, spesso e volentieri, di alzare irreparabilmente l’asticella di qualche centimetro di troppo.
Da queste parti l’esigente esigenza costituisce da sempre un aspetto fondamentale del percorso stagionale della squadra: i fiorentini vogliono che la maglia viola sia in alto, vogliono prendersela comoda ed ammirarla, e soprattutto esserne orgogliosi. Si infischiano, bonariamente parlando, di concludere costantemente la stagione al di sopra della squadra X – che poi è ultimamente sempre la solita, ben che vada le solite due – nonostante un fatturato ampiamente minore ed un bilancio (quasi) sempre in regola. Vorrei evitare di far leva sui numeri in questo caso: la tematica è ben più alta, e credo che ciò che importi sia fondamentalmente il renderla chiara attraverso una visione interna.
I fiorentini si sentono importanti e non accettano di vivacchiare alle spalle di chi, al termine del campionato, vince, rivince, stravince e si gode una soddisfazione dopo l’altra. Glielo impone il loro spirito. Sono orgogliosi della propria città, ne fanno motivo di vanto e le sono affezionati a dismisura. Per coloro i quali il calcio costituisce un dogma irremovibile, la Fiorentina è la massima espressione della rappresentazione di Firenze oltre i confini della città stessa: per questo riveste tanta importanza.
Ed è per questa ragione – eccoci dunque al punto – che il rapporto dei fiorentini con l’attuale proprietà non è mai stato, se non a tratti generalmente brevi, idilliaco. Diego e Andrea Della Valle vengono dalle Marche, e già questo è un aspetto che va in contrasto con una tradizione, quella del club viola, che sin dalle origini ha visto sedersi dietro la scrivania presidenti fiorentini o, in casi rari, comunque toscani. Serviva una svolta per invertire la tendenza: c’è stata, ed ha avuto anche un nome che da queste parti ricordano malvolentieri. Inizia con un’orrenda ‘F’ maiuscola, termina con un disgustoso ‘allimento’ minuscolo.
Rapporto non idilliaco, sì. Eppure la storia recente va in controsenso. In quattordici anni di presidenza della famiglia Della Valle la Fiorentina ha raggiunto risultati ampiamente soddisfacenti, soprattutto considerate le aspettative e il passato del club. Dal 2002, anno in cui gli imprenditori marchigiani rilevarono il club dal fallimento, sono arrivati ben cinque quarti posti (di cui due, quelli conquistati sotto la guida di Prandelli, valsero la qualificazione alla Champions League), un quinto (quello dell’annata recentemente trascorsa) ed un sesto. Oltre, ovviamente, ai piazzamenti nelle Coppe Europee: la semifinale dell’allora Coppa Uefa del 2007/08, la finale – la prima in assoluto sotto la gestione DV – di Coppa Italia del 2013/14, ma anche e soprattutto la doppia semifinale (Euro League e, ancora, Coppa Italia) dell’ultimo anno a Firenze di Montella.
Insomma, di motivi per essere fieri della Firenze del calcio, i fiorentini ne hanno avuti a sfare. Morale della favola? Non si accontentano. Vogliono di più, ma non per presunzione. Vogliono di più perché sono convinti che Firenze meriti di più. C’è poi, in tutto ciò, anche l’influenza di un naturale tendere al pessimismo e di conseguenza alla critica, ma questa è un’altra storia.
Facevo menzione, poche righe sopa, del rapporto tra il popolo viola e i fratelli Della Valle. È bene innanzitutto precisare come soprattutto di Andrea si parli, essendo quello che, tra i due, è sempre stato fisicamente più vicino alla squadra. Un rapporto che passa di striscione in striscione, di blitz in elicottero in blitz in elicottero, di (rari) bagni di folla in (ancor più rari) bagni di folla. Un rapporto che non vede, non ha mai visto e probabilmente mai vedrà una tonalità anche pur leggermente discostante dal bianco o dal nero.
Non fraintendetemi, vi prego. Non c’entrano un bel nulla i colori di società poco apprezzate da queste parti. Semplicemente i fiorentini faticano a trovare la giusta via di mezzo. O si ama ADV, o si odia ADV. Firenze è fatta così, prendere o lasciare: se le darai affetto ricambierà immediatamente con affetto, ma se le darai dispiacere ricambierà altrettanto immediatamente con dispiacere. E, in entrambi i casi, l’intensità della risposta sarà esponenzialmente maggiore. In parole povere: ADV compra Mario Gomez, dimostrando in maniera concreta attaccamento alle sorti della Fiorentina? Firenze idolatra entrambi per settimane e 1/15 della città si presenta allo stadio, in pieno luglio, per salutarli.
Che poi, sotto sotto, i fiorentini sanno bene che difficilmente potrebbe capitare una proprietà migliore di quella attuale. Lo sanno bene, e ancor più sotto (ma molto sotto) ne sono anche orgogliosi. Diego e Andrea Della Valle sono imprenditori seri e brave persone, intelligenti e oculate (che, al giorno d’oggi, non è affatto poco), ma che per ovvie ragioni non possono occuparsi in prima persona – e con costanza – della società. Altrimenti si faticherebbe a comprendere l’utilità del Presidente Esecutivo vero e proprio, che di nome fa Mario e di cognome Cognigni. E perdonate il gioco di parole.
Purtroppo, però, la parte del fiorentino medio che tende a rimanere nascosta nel manifestare il proprio giudizio nei confronti dei DV è proprio quella più obiettiva. È questo, a mio modo di vedere, un’altro mattoncino negativo dei tanti che vanno a costituire il sempre più solido castello di critiche. Esprimere il proprio dissenso verso l’operato della società – che non equivale alla proprietà, verissimo, ma che proprio da lì vede arrivare gli ordini – costituisce ormai un noiosissimo leitmotiv che ha influenzato, con il passare degli anni, una fetta esagerata del tifo.
C’è poi da sottolineare un altro aspetto che, a malincuore, si rivela fondamentale: l’ignoranza. Quella fetta esagerata (dove, attenzione, esagerata non significa maggior parte) del tifo di cui sopra, infatti, ignora o tratta con superficialità una marea di cose.
Quella che nel corso degli anni ho avuto modo di vivere con maggior vicinanza è la tematica delle plusvalenze. Sono un patito del calciomercato, e per qualche motivo le cifre hanno sempre costituito un’intensa fonte di attrazione verso il mio subconscio. Le domande retoriche più frequenti che si sono diffuse, in chiave mercato, negli ultimi anni, sono state le seguenti: ma i soldi di Cuadrado? Che fine hanno fatto? E quelli di Savic? Ma i famosi trenta milioni di Jovetic? Tutte rigorosamente contornate da uno spiccato carattere polemico, superficialmente volte a smascherare (invano, chiaramente) una politica che, in poche parole, sarebbe stata incentrata sulla losca figura di ADV nell’atto di tener per sé i ricavi delle cessioni senza reinvestirli per rinforzare la squadra.
E pazienza, pazienza se il bilancio societario mostra chiaramente come, nelle ultime tre stagioni, il fratello minore sia dovuto intervenire di tasca propria con oltre cinquanta milioni di euro per far quadrare i conti. Che poi siano metaforicamente briciole per il ventitreesimo uomo più ricco d’Italia, siamo tutti d’accordo, ma è sempre bene astenersi dal fare i conti in tasca agli altri.
Senza abbandonare il volume dell’ignoranza voltiamo pagina e passiamo al secondo capitolo. Da ormai quattro anni la Fiorentina staziona nei piani alti della classifica, non fallisce la qualificazione europea da altrettante stagioni e, soprattutto, riesce a soddisfare sul piano del gioco – quando più, quando meno – l’esigente popolo viola.
Sorge dunque spontaneo, ed accompagnato da un sorriso carico d’ironia, il chiedersi per quale motivo ogni singola estate – al di là di quelle che possono essere o non essere le quotazioni della squadra ad inizio stagione – sia contornata dalla classica atmosfera di delusione, sconsolatezza e pochezza di morale.
Parlando del presente: può darsi, e mi trovo in gran parte in accordo con chi afferma ciò, che la campagna acquisti condotta sino ad ora non sia sufficiente per affrontare un’altra stagione impegnata sui tre fronti (ai quali, ed è un privilegio enorme, Firenze si sta abituando), ma sono altrettanto dell’idea che la critica a priori, e soprattutto a prescindere, non sia d’aiuto a nessuno.
È evidente come il precampionato sia stato decisamente negativo, così come non è necessario essere laureati in psicologia per rendersi conto che qualcosa, tra Paulo Sousa e la dirigenza, si è (irreparabilmente?) rotto. Ma è ancor più evidente, a mio modo di vedere, come questa società abbia raramente fallito nel corso degli ultimi anni, considerando l’operato generale e lasciando da una parte situazioni specifiche. Può darsi che in futuro possa non meritare fiducia, ed a quel punto ne riparleremo. Ma la merita adesso, e le va concessa.
Firenze è riconosciuta come una città appassionata, estroversa e unita, ed è giusto che sia così, ma nessuno ne conosce il vero potenziale. La fiorentinità è un dono prezioso che, sotto la gestione della famiglia Della Valle, il popolo viola non è ancora riuscito a tramutare in arma a proprio favore. Potrà farlo raggiungendo l’unione definitiva, trovando una volta per tutte la sintonia con chi sta dall’altra parte e si professa tifoso quasi viscerale. Servirà scavare, forse più a fondo di quanto si pensi e sicuramente non soltanto da un lato, ma non è altro che l’unico modo per fare l’ultimo, decisivo salto di qualità.
Forse è utopia sperare che un giorno possa accadere, o forse non lo è. Quel che è certo – lasciatemelo dire – è che un amore così grande non può permettersi di restare bello soltanto tra le righe. È impossibile. Un po’ come citare due delle più belle canzoni d’amore dell’ultimo trentennio in due misere righe.