Attacco, difesa e Curry

Nel 2003, nell’anno in cui San Antonio vinse il suo secondo titolo NBA, un uomo fece parlare di sé in una partita di Regular Season, un certo Kobe Bryant, non per la quantità di punti realizzati, bensì per il numero di triple messa in un singolo match. 12 per la precisione, con una mano calda e morbida, come quella del Mamba è sempre stata, che all’epoca fece impazzire i Supersonics di Seattle, cominciando a far capire al mondo quanto quel numero 8 (poi 24) fosse davvero di un altro pianeta.

Ma campioni come il ragazzo che passò la vita in giallo e viola ne nascono pochi, e tra quei prescelti che hanno il sangue del Gioco che scorre nelle loro vene, bisogna citare Stephen Curry. Dopo stanotte una volta di più, visto che contro i Pelicans del sempre più solo Anthony Davis ha riscritto il record di triple, innalzandolo di uno (13) su 17 tentativi. Quando poi, oltre ad essere lui un fenomeno, ha come compagni di squadra gente come Durant o Thompson che ne mettono insieme tanti quanti ne ha messi lui (46, 22 per KD e 24 per Klay), allora la cosa si fa decisamente interessante.

Soprattutto perché dall’altro lato del campo i ragazzi di New Orleans sono usciti ben più che a testa alta, perdendo di soli cinque possessi contro i vice campioni in carica. Come detto prima, la luce della ‘terra del blues‘ è e sarà per lungo tempo il più famoso monociglio dell’NBA, nonostante Moore e Frazier si stiano dando da fare per provare a formare una costellazione in uno spazio rimasto buio per troppo tempo. Ma sette sconfitte su altrettante partite, per quanto molte siano arrivate punto a punto, non sono sintomo di sicurezza, tantomeno di ottimismo.

E se in una squadra come i Warriors il gioco d’attacco continua a essere questo ‘flow‘ che tanto piace a Kerr, che tanto esalta Curry, nella parte alta della California, a Los Angeles, sponda Clippers, è la difesa a farla da padrone. Il trio composto da Paul, Griffin e Jordan sta realmente facendosi avanti per iscriversi tra i papabili nomi da Playoffs, viste le prestazioni degli ultimi due. Mentre CP3 vede passaggi e traiettorie impossibili e impensabili, mandando a canestro chiunque sia il suo compagno di squadra in quel frangente, Blake e DeAndre difendono il tabellone con unghie e denti, raccogliendo tutto ciò che cade e che non tocca la retina.

Dieci rimbalzi a testa nell’ultimo match contro Detroit, altri 13 in due (ai quali aggiungere gli 8 di Paul) contro San Antonio. Si può dire che l’inizio di stagione dei ragazzi di Doc Rivers non sia stato affatto male, visto anche le sei vittorie e l’unica sconfitta maturata contro OKC per soli due punti. Questo significa che il secondo posto è un traguardo raggiungibile per i rossoblù, decisi questa stagione più che mai a fare bene alle Finals, risultato minimo per un roster che sembra essersi finalmente trovato.

E per tre ragazzi che si trovano a meraviglia, altri due cominciano a diventare amici inseparabili di giochi, amanti di una palla a spicchi che stanno compiancendo come meglio si può, con stoppate e giocate che solo pochi riescono a fare. Tornando al discorso dell’essere nati fenomeni, anche Russell Westbrook rientra in questa particolare fascia di nascite, in quella lista quasi mai troppo lunga, ma sempre moderatamente stilata, dove sta scalando posizioni partita dopo partita. Al suo fianco, con tremenda velocità, si sta affiancando Steven Adams, classe 1993, talento incredibile proveniente dalla Nuova Zelanda.

Contro gli Heat sono stati solo 14 i punti, ma gli 11 assist sono stati la giusta coppia per fare una doppia doppia che non manca da tempo ormai, alla quale sta abituando tutti i tifosi dell’Oklahoma, disperati quando KD è partito, sempre più meravigliati e ottimisti ora che Russell ha preso in mani le redini del gioco. Ancora non si capisce bene cosa sia Miami, se vittima o carnefice del Campionato, in teoria all’altezza dei ragazzi di Spoelstra, in pratica troppo duro per fargli vincere due partite di fila.

Whiteside e Winslow sono i due ottimi prospetti, che stanno facendo bene ma non benissimo, e il superlativo, in NBA, serve eccome. Necessita per prendere fiducia, si brama affinché si vinca, si desidera perché nulla è più bello del ‘metterla dentro ed esultare‘. E la prossima notte sarà contro Chicago, contro il numero 3 che è tornato a casa, quel Wade che ha regalato la sua gioventù alla costa atlantica di Miami, che sta donando la sua esperienza alla città del vento di Chicago. Troveranno dei Bulls sulla scia di un’onda di sconfitte e vittorie (4-3 per la precisione), con l’ultima arrivata contro gli Orlando Magic di Gordon e Fournier, con il trio Wade-Butler-Gibson che sta lentamente prendendo il ritmo della Regular Season, che sta pazientemente disegnando i contorni per un inizio di stagione che prevede già una fine scoppiettante e mirabolante.

E in questo strepitoso quanto mai incerto inizio di RS, sono gli Hornets di MJ che stanno facendo parlare molto di loro. 5 vittorie e una sconfitta finora (con Boston), con un Belinelli che sembra essere tornato quello che vestiva la maglia Spurs, Kemba Walker che continua a stupire e a segnare canestri su canestri, senza ascoltare le voci che lo descrivono come un “si, ma alla lunga non tiene“; e infine un Batum che magari non farà cantare di gioia in fase realizzativa, ma in difesa e in qualità di assistman riesce ancora a dire la sua.

I Pacers sono state le vittime della notte, sconfitti 122-100 in una partita dove Miles ha fatto il mattatore con 23 punti, dove George e Turner hanno retto fino a un certo punto, per crollare psicologicamente prima, fisicamente poi, contro il roster finora ben diretto da Steve Clifford. i ragazzi di Indianapolis dovranno cominciare a fare più gioco di squadra, a non pensare che sia tutto nelle mani del singolo; si gioca in cinque per un motivo, lasciate che sia così.

Spesso di dice che il miglior attacco è la difesa e che, viceversa, la miglior difesa è l’attacco. Ma dove comincia uno e dove finisce l’altra? Chi decide qual è l’attacco perfetto e chi definisce la miglior difesa? Come sempre accade, non esiste una definizione o un allenamento specifico e provato per la perfezione, quindi quello che si può fare è provare il più possibile ad avvicinarsi a essa. A volte ha il nome di un giocatore, altre volte sono 5 nomi, spesso sono un intero roster; ma da sempre e per sempre, la perfezione di una giocata sta nell’imperfezione di chi la compie, tanto del singolo quanto del gruppo, perché se ‘sbagliando s’impara‘, allora benvenuti errori.

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