Sono sicuro che Michael Moore non abbia una grande considerazione di Donald Trump. Per accorgersene basta guardare il documentario “Fahrenheit 11/9”, in cui Moore sviscera i motivi profondi della vittoria repubblicana, squarciando il Velo di Maia che nascondeva agli occhi distratti del mondo quell’America profonda – fatta di lavoratori del Midwest che vivono in luoghi marginalizzati e impoveriti – che è stata abbandonata dai democratici e su cui Trump ha costruito la sua vittoria.
Deep State
Milwaukee si trova in Wisconsin, uno stato centrale nello scacchiere americano solo dal punto di vista geografico. Vista da fuori sembra una bella cittadina, moderna e ospitale, con il Lago Michigan che affiora nella parte orientale. Per chi la popola, però, la città non pare essere ugualmente accogliente, in particolare se si appartiene a una qualche minoranza.
Questo lo dice, ad esempio, un interessante reportage del Guardian nel quale viene intervistata la madre di Dontre Hamilton, un ragazzo di colore ucciso nel 2014 dalla polizia. Insomma: Milwaukee è una città lontana dai grandi centri, in cui la convivenza tra persone di origini diverse è complicata. Hillary Clinton, però, durante la sua campagna elettorale per le ultime presidenziali non ha messo piede in questo stato: un segnale di abbandono a cui i cittadini hanno risposto non andando a votare, o preferendole Trump, tanto che in Wisconsin, per la prima volta dal 1984, i repubblicani hanno ricevuto un maggior numero di voti rispetto ai democratici.
Anche la squadra di basket della città aveva un impatto piuttosto marginale in NBA, almeno fino a qualche anno fa. I dati riguardanti la presenza media di sostenitori al Bradley Center (sostituito da questa stagione per far spazio al nuovissimo Fiserv Forum) sono chiarissimi in questo senso: il 2006 è stata l’ultima stagione prima di quella attuale in cui i Bucks sono usciti dalle ultime dieci posizioni della classifica sulle presenze nelle arene NBA. Non è un segreto, però, che con Giannis Antetokounmpo il destino della franchigia sia irreversibilmente cambiato. Senza girarci attorno con troppa retorica: nessuno si aspettava che il greco potesse arrivare a questi livelli, ad essere un giocatore autonomamente in grado di far svoltare una squadra in NBA. Antetokounmpo è cresciuto progressivamente a partire dal Draft 2013, passando per il premio di Most Improved Player ricevuto dopo la stagione 2016-2017, fino ad arrivare al potenziale MVP che è oggi. Forse è esagerato dire che ha dato una speranza di riscatto alle persone che vivono un’esistenza difficile e lontana dalle grandi capitali, ma forse no.
Del resto, se è riuscito a farlo un allenatore gallese con i cittadini della grigia Sunderland, perchè non dovrebbe poterci riuscire anche un greco in Wisconsin? In fondo non è facile portare 17.400 persone al palazzetto ogni volta che si scende in campo.
Il profilo perfetto
Quello che però mancava ai Bucks era un sistema che esaltasse le qualità di The Greek Freak e ne nascondesse le – poche – lacune. Non c’era riuscito infatti del tutto Jason Kidd, che pure ha avuto un ruolo di primo piano nell’ascesa recente della squadra. La dirigenza guidata dal GM Jon Horst ha quindi deciso di virare su un profilo esperto e soprattutto su un maestro che potesse creare un modello virtuoso attorno alla franchigia: Mike Budenholzer, che già da subito è sembrato essere perfetto per creare qualcosa di solido con il materiale umano a sua disposizione.
L’ex-coach di Atlanta aveva creato proprio in Georgia un sistema che esaltava tutti i suoi pezzi, pur non avendo nessun giocatore nettamente più forte degli altri: nel 2014-2015 portò la squadra al primo posto della Eastern Conference e venne nominato Coach of The Year. Il profilo perfetto, dicevamo.
Budenholzer ha ideato un piano tattico basato sul tiro da tre e le spaziature: quando Antetokounmpo attacca con la palla in mano, i suoi compagni sono sempre aperti sulla linea da tre punti per dargli ampio spazio di manovra negli uno contro uno. I difensori, con tanti metri da coprire ai loro fianchi, difficilmente possono contenere l’apertura alare del greco; se arriva un compagno in aiuto, però, Giannis può punire immediatamente la scelta con un passaggio diretto verso chi è più smarcato. Non è un caso che il numero di tentativi dalla lunga distanza sia aumentato corposamente (da quasi 25 nella scorsa stagione a poco più di 38 in quella attuale), anche grazie all’aggiunta di buoni tiratori come Brook Lopez e alla crescita di ottimi shooter già presenti a roster, vedi Malcolm Brogdon, che segna il 42% delle volte quando tira da dietro l’arco, o D.J. Wilson, dinamico e pericoloso anche a rimbalzo.
Qui ad esempio, nella partita di inizio gennaio contro i Raptors, succede esattamente questo: Giannis prende il rimbalzo, porta palla fino all’area avversaria e la difesa collassa su di lui; mantiene però la lucidità per vedere Sterling Brown smarcato dal perimetro, che segna col tiro da tre.
Quando invece il ball-handler principale diventano Brogdon, Eric Bledsoe o George Hill, Antetokounmpo tende a rendersi utile bloccando per i pick&roll e prendendo posizioni profonde per attaccare in post, dove può generare mismatch altrettanto pericolosi. In alternativa, può rimanere in punta per effettuare un consegnato oppure tirare dal mid-range.
I Bucks sono dunque una squadra ugualmente pericolosa in transizione e nell’attacco a metà campo, in cui come abbiamo visto hanno un bel numero di soluzioni da applicare. La prima tipologia d’attacco è però quella preferita (sono sesti nella lega per Pace). In difesa si chiudono grazie alle grandi competenze difensive di buona parte del roster, per poi correre con il campo aperto, una situazione in cui possono sfruttare la rapidità di Bledsoe, le braccia lunghe dell’onnipresente greco o l’acume tattico di Middleton. Il sistema di Budenholzer, insomma, è strettamente edificato attorno alle sinuose linee di Antetokounmpo, e come potrebbe essere altrimenti?
Cosa c’è all’orizzonte?
Ora, posto che le cose continuino ad andare bene in stagione regolare – nella Eastern probabilmente Milwaukee si giocherà il primo posto con Raptors, Sixers e magari anche Pacers e Celtics – il dubbio sorge relativamente ai PlayOff. Tutti gli elementi confortanti emersi nelle ultime stagioni regolari sono venuti meno in primavera, due anni fa contro i Raptors e l’anno scorso contro i Celtics, entrambe serie di primo turno in cui i Bucks sono usciti sconfitti. Le partite giocate contro Boston ad aprile 2018 – gara-7 in particolare – rappresentano una polaroid di cosa non andasse nel gioco dei Bucks l’anno passato.
Troppi isolamenti statici, un attacco lento e compassato, spaziature offensive caotiche e poco funzionali alle migliori possibilità della squadra. Anche perchè gli avversari nei PlayOff sono come le domande centrali di Live Quiz: più difficili da affrontare rispetto a quelle a cui si ha già risposto, richiedono più concentrazione, ti fanno pagare ogni minimo errore: se sbagli esci dal gioco, insomma.
E’ difficile giocare il basket preferito dai Bucks – quello in transizione – contro una difesa molto chiusa, e ai PlayOff se ne incontrano parecchie. Questa è quella di Boston in gara-7 della serie disputata meno di un anno fa. I Bucks attaccano a metà campo in modo piuttosto lento e prevedibile, con un isolamento di Antetokounmpo contro Al Horford. Il dominicano però lo porta in un imbuto e riesce a stopparlo, detonando il giocatore più forte della squadra avversaria con una certa facilità.
Per arrivare fino ai PlayOff, comunque, la strada è ancora lunga, tortuosa e piena di sorprese. Per ora possiamo goderci quella che probabilmente è la miglior versione dei Bucks da quando è iniziato il XXI secolo, con un giocatore che dominerà la Lega per parecchi anni e un allenatore che sa creare l’habitat adatto per farlo rendere al massimo. Con la speranza che l’idillio possa costringere i giocatori dei Bucks a partire per le vacanze in profonda primavera, magari alle porte dell’estate.