Carlo Ancelotti è sicuramente uno degli allenatori più vincenti della storia del calcio: ha vinto il titolo nazionale in Francia, Inghilterra, Italia e Germania, e ha in bacheca tre Champions League, conquistate con tre squadre diverse, giusto per citare una minima percentuale dei suoi titoli. Proprio per questo motivo, è da molti considerato uno dei migliori allenatori in circolazione, come dimostra il fatto che nelle ultime stagioni ha allenato PSG, Real Madrid e Bayern Monaco, tre delle migliori formazioni in Europa.
A dispetto di tutto questo fantastico palmares, la dirigenza del Bayern poco meno di una settimana fa, ha deciso di esonerare Ancelotti, un atteggiamento insolito da parte dei bavaresi, che non cacciavano un tecnico dal 2011, quando sulla panchina sedeva Van Gaal. Una scelta piuttosto controversa e apparentemente incomprensibile: cerchiamo allora di capire cosa abbia spinto Rummenigge ad allontanare Carletto da Monaco.
Spogliatoio in rivolta
Una delle grandi qualità che sono riconosciute ad Ancelotti come allenatore, è quella di saper gestire i grandi campioni, creando un ambiente confortevole in spogliatoio e costruendo sempre bei rapporti coi suoi calciatori, riuscendo allo stesso tempo a tenerli sul pezzo mentalmente. Nel 2015, ad esempio, Ronaldo lo definì come “un grande orso: una brava persona”, in un’intervista in cui affermava che Ancelotti, che aveva lasciato il posto a Madrid a Benitez, gli mancava, come se ci fosse una vera amicizia o un amore platonico tra i due. Anche Ibra, con lui al PSG dal 2011 al 2013, quando Ancelotti stava per partire da Parigi con destinazione Madrid, preservò parole al miele per Carletto:
“Nessuno sa avere rapporti con i calciatori come lui”
Chiese, poi, alla società di trattenerlo, ma così non fu. Tutto ciò è stato però sconfessato in modo abbastanza incredibile a Monaco, dove Ancelotti ha avuto un rapporto difficile con diversi senatori.
Nessuno escluso.
Da Ribery che più volte si è lamentato al momento della sostituzione, a Müller che a settembre ha dichiarato di avere la sensazione che le sue qualità non fossero richieste, per finire con Robben che ha praticamente anticipato l’esonero di Ancelotti, rifiutandosi di rispondere alla domanda sul rapporto tra spogliatoio e allenatore dopo la partita persa per 3-0 col PSG in Champions League. Il pomo della discordia in questi quattordici mesi al Bayern è stato il turnover, che ha coinvolto in particolare il reparto offensivo della squadra, e ha reso meno intoccabili proprio i tre giocatori che poi si sono, chi più chi meno, pubblicamente lamentati di questa situazione.
Qui bisogna però spezzare una lancia in favore dell’ex-allenatore del Milan: Robben e Ribery hanno rispettivamente 33 e 34 anni, non più giovanissimi e pienamente integri, e se a questo aggiungiamo che Ancelotti aveva almeno sette giocatori competitivi in avanti (Coman, Thiago, James, Lewandovski, oltre a Müller, Robben e Ribery), tutti devono ruotare. I giocatori più esperti qui non hanno dato un grande esempio di maturità e di sacrificio, mettendo praticamente il proprio interesse davanti a quello della squadra, e rendendo difficile il lavoro di Ancelotti.

Problemi di gioco
È necessario però anche sottolineare come il Bayern avesse palesato nelle prime partite della stagione delle problematiche piuttosto evidenti, come confermato dal secondo posto in classifica dei bavaresi ai danni del Borussia Dortmund nella Bundesliga e dalla pesante sconfitta contro il PSG in campo europeo. C’è poco da fare, con Ancelotti i tedeschi faticano assai nella costruzione di una manovra fluida. Prendete la partita con il Wolfsburg, ad esempio: le azioni sono partite dal basso molto lentamente, facilmente leggibili dagli avversari, gli attaccanti raramente hanno fatto movimenti proficui senza palla, cosa che ha reso il possesso ancora più sterile. La manovra è partita quasi sempre dai piedi di Hummels o di Boateng, ma fin qui nulla di strano mi direte.
Strano che questo rappresenti l’unico schema tangibile del Bayern Monaco. Della serie “Diamola avanti, che magari inventano qualcosa.”
Mettiamoci anche un Lewandowski quasi vittima sacrificale di un meccanismo arrugginito, sempre costretto ad arretrare di parecchi metri per aiutare nella circolazione, senza per la verità grandi risultati (2-2).
Con il PSG è stata messa in luce negativamente la fase di non possesso del Bayern, che spesso si trovava sbilanciato a subire le transizioni dei velocissimi attaccanti di Emery. Questione di equilibri, ma Carletto avrebbe potuto lavorare – dal punto di vista meramente tattico sui tanti problemi che la sua squadra aveva palesato in queste partite, se gli fosse stato dato più tempo.
Out
Ovviamente non si parla dell’edizione di quest’anno della coppa con le grandi orecchie: la sconfitta contro Neymar è stata pesante, ma il Bayern è comunque quasi certo di superare i gironi. Ritornando col pensiero fisso all’aprile scorso però, è facile ricordare la doppia sfida dei bavaresi contro il Real Madrid, che ai quarti di finale vide il trionfo degli spagnoli, guidati da un super Ronaldo. Ancelotti fu piuttosto critico nel post-partita della gara di ritorno, quella disputata al Bernabeu e persa per 4-2, nei confronti della terna arbitrale, che effettivamente visse una giornata molto negativa, convalidando due gol in fuorigioco a CR7 e mostrando il secondo cartellino giallo a Vidal per un intervento sulla palla. Il Bayern fino a quel momento aveva dominato la partita, portandosi sullo 0-2, che pareggiava di fatto lo stesso risultato subito all’andata; la dirigenza fu infatti tutto sommato contenta delle prestazioni della squadra, tanto da mostrarsi vicina ad Ancelotti anche dopo l’uscita nei quarti.
Quella maestosa Coppa dalle Grandi Orecchie è ormai un incubo. Da quella gloriosa ed epocale notte di Wembley, dove nel 1986 un certo Freddie Mercury intonò “The Show Must Go On“, lo spettacolo dei bavaresi non è andato avanti. Si è fermato a quella sera del 25 maggio, in cui Arjen Robben diventò l’uomo partita, l’uomo che fece tornare la Champions League a Monaco di Baviera.
Da quel 25 maggio 2013 non è più tornata.
Nemmeno un maestro come Guardiola, non avendo disputato neanche una finale nelle sue tre stagioni in Germania, riuscì nell’impresa né si è sentito in dovere di scusarsi con l’ambiente, prima di congedarsi nel 2016, per non aver mai portato a casa il trofeo durante il triennio. È probabile quindi che il risultato non eccelso della stagione scorsa, combinato con la debacle contro il PSG, che rischia di impedire ai tedeschi di arrivare primi nel girone costringendoli a una sfida più complessa agli ottavi, abbia pesato parecchio nell’ottica della società, che vuole riportare la Champions League in Baviera.
Buona parte dell’opinione pubblica, soprattutto quella italiana, si è indignata per l’esonero di un allenatore del livello di Ancelotti, tra l’altro da parte di una società tedesca, cosa che risveglia negli animi della penisola gli storici contrasti sportivi con la Germania, e probabilmente è vero che forse il Bayern ha avuto troppa fretta e i giocatori non hanno aiutato l’allenatore.
Ma il calcio è così: se siedi in panchina e perdi, il primo capro espiatorio sei tu. Se perdi il controllo e la fiducia dello spogliatoio, ancora peggio.
E non importa se ti chiami Carlo Ancelotti.