Dentro il pallone per Del Piero…
Prologo
Insiste ancora Podolski…Cannavaro!
Le parole si riempiono. Un tifo assordante, improvviso, che fa vibrare i nostri timpani. Siamo dentro uno stadio. Il Westfalen, quello che di solito ospita il Muro Giallo del Borussia Dortmund. Ma questa volta è diverso.
Via il contropiede per Totti, dentro il pallone per Gilardino…
Lo vediamo, quel passaggio. Si è scolpito nella mente di tutti, indelebile come il battesimo. Un taglio netto, ad aprire il campo, di quelli che non si fanno più, di quelli che dovrebbero insegnare nelle scuole calcio.
Gilardino la può tenere anche vicino alla bandierina!
Eh sì, la poteva tenere. Puro spirito italiano. Chiamatelo come volete: catenaccio, machiavellismo, opportunismo. Conservare la palla nella zona più innocua del campo. Lasciare che il tempo faccia il proprio corso. Caricarsi sulle spalle il peso di ogni singolo istante. L’Italia è questo: un paese di furbi. O forse no.
Dentro il pallone per Del Piero, Del Piero…
A volte l’eroismo è un atto necessario. Altre volte, le invisibili costellazioni del calcio fanno accadere tutto per una ragione. Quel gol lo fa l’ala, che parte da molto lontano, così lontano che per ottanta metri non rientra neppure nell’inquadratura in mondovisione.
Andiamo a Berlino.
Lo schermo si riempie della schiena di Del Piero. Ci sembra tozzo, quasi deformato dall’esultanza, non ha la solita chioma. Agita il pugno al cielo, è un fascio di nervi. Non ce l’ha coi tedeschi, ammutoliti al di là dei tabelloni pubblicitari. Ce l’ha con tutto il resto. Era da dieci anni che continuavano a ripetergli che lui, senza i colori della Juventus, non sarebbe mai riuscito a vincere nulla.
1.
Tutto comincia all’oratorio. Tradizionalmente, le parrocchie italiane hanno prodotto più talenti di qualsiasi altra scuola calcio. E alla fine degli anni Settanta c’è un bambino che sembra il prototipo del fuoriclasse. Il primo ad accorgersi di lui è ovviamente un parroco. El don, come lo chiamano a Treviso e provincia. E farsi notare da un prete, per chi nasce laggiù nel 1974, non è cosa da poco. Perché la Chiesa ha in mano tutto, in quella roccaforte democristiana. I preti possono passare sopra le istituzioni. Deus vult.
El bocia l’é bravo.
Il bambino tocca il pallone in modo diverso. Il prete se ne accorge e fa un paio di telefonate a Padova, dove hanno un bel settore giovanile. I biancoscudati mandano giù uno dei loro fino a Saccon, piccola frazione di San Vendemiano. Osservano il ragazzino: tecnicamente è ineccepibile, ma è troppo gracile per fare il calciatore. Quel fisico non regge nemmeno gli inverni, figurarsi una stagione sportiva. Forse aveva ragione la Bruna, sua mamma.
Féo ziogar in porta, che se no el se ciapa ‘a polmonite.
Per fortuna, non l’hanno ascoltata. Perché il piccolo Alex non la deve difendere, quella porta. La deve spaccare.
Negli anni Ottanta ci sono due cose che premono per uscire dall’anonimato delle campagne trevigiane: la prima è il prosecco, un vino di umili natali che vuole spodestare addirittura lo champagne; la seconda è proprio quel ragazzino lì, che è troppo forte per giocare a San Vendemiano. Umiltà e ambizione. Doti rare da mettere assieme.
Sono fiero di mio padre che si spaccò la schiena come elettricista, e di mia madre che avrà lavato per terra in tutte le case di Conegliano. Sono strafelice di avere avuto quell’infanzia, dove i desideri erano in rapporto alle possibilità, mai di più.
Ha la testa sulle spalle il ragazzo. Merito del catechismo, dice il prete di Saccon. Merito della famiglia, dicono i vicini. Ma è proprio Alessandro a crescere così, senza imposizioni di sorta. Riflessivo, freddo, razionale. Doti indispensabili per il grande calcio.
2.
Da bambino spesso giocavo da solo: serve tanta immaginazione. Passavo la palla a Cabrini, Tardini, Scirea; duettavo con Platini.
Ormai è un ragazzo prodigio, inutile far finta di niente. Ha sedici anni e fa già la differenza col Padova, in Serie B. La Juventus non può farselo scappare. Del Piero esordisce quasi subito, con la maglia numero 16: è il 12 settembre 1993. Da quel momento la sua carriera da professionista ha un’impennata pazzesca.
Con la Juventus avrebbe vinto tutto, arrivando a un passo dal Pallone d’Oro. Soprattutto, Alex ha inciso il suo nome tra le firme del calcio, con quel gol alla Del Piero che dal 1995 al 1996 sembrò uno dei gesti atletici più innovativi del gioco, arrivato alla massima incoronazione contro il Borussia Dortmund, 13 settembre 1995. Proprio al Westfalen Stadion. Un punto fermo nella carriera di Del Piero.
Mi bastarono dieci minuti per capire che sarebbe diventato un campione.
Giovanni Trapattoni
Il bianco e il nero gli calzano a meraviglia. Del Piero gioca sempre ed è determinante come pochi. Poi però, Alex, comincia a indossare anche un altro colore. Il colore più importante di tutti. Ma quando si veste in azzurro, pare che la divisa non gli stia bene addosso.
Del Piero ha giocato sette tornei internazionali. Ha cominciato dall’Europeo del 1996 in Inghilterra e ha finito con un altro europeo, dodici anni dopo, in Austria e Svizzera. Un decennio abbondante di azzurro e sfortune. Perché sembrava che Del Piero non riuscisse a replicare gli stessi gesti tecnici fatti in bianconero. E soprattutto sembrava che gli dei del calcio congiurassero contro di lui, per lasciarlo sempre a bocca asciutta.

3.
Ci sono delle tradizioni, in nazionale, che è difficile portar via. Una delle usanze più singolari è quella della staffetta, inaugurata nel mondiale 1970 da Riva e Rivera. Due fuoriclasse assoluti, considerati incompatibili per il calcio dell’epoca.
Del Piero è nato 4 anni dopo la disfatta italiana in Messico. E ha fatto comunque in tempo a essere vittima della staffetta, che ne ha condizionato la carriera in azzurro. Sacrificare il talento in nome dell’organizzazione collettiva. Limitare la fantasia per vincere. Ogni volta che scendeva in campo, dava l’impressione di non essere decisivo.
Nel 1998, al primo mondiale da protagonista, Cesare Maldini gli affida la maglia numero 10, ma fin da subito si divide il minutaggio con Roberto Baggio che indossa la 18. Non segna neanche un gol, e diventa il capro espiatorio dei tifosi. Sessanta milioni di allenatori lo accusano di essere inconcludente, di impaurirsi di fronte alle responsabilità. Ma Alessandro Del Piero ha 24 anni. Ha ancora tutta la carriera davanti per farli ricredere.
4.
Nel 2000 si sfiora l’impresa. Questa volta pare che tutto giri per il verso giusto. In finale c’è di nuovo la Francia e tira aria di vendetta. Le formazioni sono pressoché identiche; Del Piero indossa la numero 10, ma in quel mese deve cedere il posto a un ispiratissimo Francesco Totti, con la 20, che per distacco è il miglior giocatore dell’intera competizione.
La partita è tesa, difficile. Passati i novanta minuti, la finale diventa un duello al primo sangue, perché la FIFA ha avuto la brillante idea di introdurre il golden goal. Il resto lo conosciamo tutti.

Femo che chi segna l’ultimo el gà vinto? No, che mi sbaje come Del Piero.
Ancora oggi, in Italia, quel golden goal pesa come un malocchio. Tutta colpa di Del Piero, sosterranno in molti. Che subentra nella ripresa a Stafano Fiore e fallisce due occasioni nitide per raddoppiare il vantaggio di Delvecchio. Una di queste opportunità è molto simile a quella che avrebbe trasformato in gol sei anni più tardi.
Eccolo lì, Alex, il capro espiatorio perfetto, difeso solo dagli juventini più irriducibili. Tutti gli altri lo trasformano nel bersaglio del loro rancore: è l’ennesima finale persa, l’occasione mancata di una generazione d’oro che potrebbe ritirarsi senza aver vinto nulla. Non sa essere decisivo, dicono. Del Piero è uno tra tanti, dicono. Al terzo torneo in maglia azzurra, non ha ancora segnato nessun gol. Da lì comincia un’altra storia.
5.
Si avvicina un’ altra occasione. Il mondiale in estremo Oriente. Del Piero prova a ingraziarsi gli dei e cambia le carte in regola. Rinuncia alla dieci, e la concede a Totti, il nuovo pupillo del tifo italiano. Torna al suo vecchio numero, il numero sette che gli aveva sempre portato fortuna. Quello di Padova, dove faceva l’ala e solcava i campi di Serie B.
L’Italia tra i due millenni è una selezione bella e sfortunata. Il mondiale del 2002 sotto la guida di Giovanni Trapattoni, è stato rimosso collettivamente dalla memoria di tutti; rimangono impresse solamente le divise di una bellezza disarmante, che sarebbero state perfette per sollevare la Coppa.
Dopo la sconfitta agli ottavi contro la Corea del Sud, Del Piero è visibilmente accigliato e polemico. Ed è cosa rara, perché Ale no’l faria mal gnianca a una mosca.
Uso termini teneri per evitare squalifiche, ma è inutile nasconderlo. Ci sentiamo derubati. […] Sono troppi i casi a nostro sfavore successi in questo Mondiale per pensare solo a coincidenze. In precedenza siamo riusciti a salvarci, stavolta no: dovremo rivedere tutti questi episodi. Volevamo realizzare un’impresa che all’Italia è riuscita una volta sola negli ultimi 70 anni. Il grande rammarico viene dalla consapevolezza che avevamo molti degli ingredienti che servono per vincere.
Per tanti fu l’ultima grande occasione. Maldini tornò a casa pietrificato, come Vieri e Montella che avevano perso a loro insaputa l’ultimo treno. Ma non per Del Piero, non ancora. Quel mondiale, infatti, incomincia a riequilibrare il rapporto tra Del Piero e l’azzurro. Il gol contro il Messico ai gironi riassume la difficile carriera dell’attaccante con la maglia azzurra. Alex rientrava dal durissimo infortunio al ginocchio (rottura di entrambi i legamenti crociati) e aveva appena perso suo padre. L’azione da gol si sviluppa a una velocità supersonica, con un assist pregevole di Montella. L’esultanza è una delle più iconiche che si possano ricordare in maglia azzurra. Con quel dito che si appoggia sotto il naso, e poi vola al cielo.
6.
Quel gol, l’ultimo grande gol alla Del Piero, è un gesto che arriva da lontano. Il primo piano sul numero sette, Jens Lehman in uscita, la gamba di Alex che si avvita con eleganza, imprimendo al colpo di piatto una forza spaventosa.
E poi quella telecronaca, la voragine che si apre dentro di noi ogni volta che qualcuno la recita, quasi fosse una preghiera. Le parole di Fabio Caressa sono come una formula magica. Possono distorcere lo spazio-tempo. Proprio così, con un eterno presente, nasce l’epica.
Il 2-0 non è importante, per l’Italia. Eravamo già in finale, i tedeschi erano annichiliti dalla disfatta casalinga che prendeva forma davanti a loro. Per questo il gol al Westfalen conta per qualcos’altro.
Dentro quel tiro, dentro il graffio di una tigre messa all’angolo, c’è tutto il miglior Alessandro Del Piero. Un singolo gesto tecnico per far brillare tutta una carriera azzurra, per trasformare uno scialbo cielo di novembre in un panorama da agosto, color lapislazzuli.

7.
A volte dimentichiamo che i campioni possono anche rimanere in silenzio. Del Piero era meno esuberante di Totti e di certo meno appariscente di Vieri.
Anche se nel 2000 è stato il calciatore più pagato al mondo, Del Piero non ha mai sentito il bisogno di ostentarlo. Vecchia educazione cattolica, o forse eredità dei suoi genitori, che avevano costruito una vita più che dignitosa col sudore della fronte.
I soldi risolvono un bel po’ di problemi pratici, però conosco un sacco di ricchi tristi, anche nel calcio, e non è retorica: è la verità. In questo mondo c’è solitudine, a volte depressione. Siamo persone con dei sentimenti, persone anche fragili. Vedo gente che ha doni e li spreca, e si butta via.
Mentre solleva la coppa del mondo, i tribunali sportivi condannano mezza Serie A per illeciti di varia natura. Una Caporetto e una diaspora nel giro di poche settimane. Del Piero aveva vinto tutto, e vedeva una delle squadre più forti del decennio smantellata in un’estate. Ma lui è il capitano, e non ci sono scuse che tengano. Soldi, fama, vergogna, età. Non si pone neppure il problema.
Un cavaliere non abbandona mai la sua signora.
Rivederlo due mesi dopo sui campi della serie cadetta, da campione del mondo, è strano. Ha trentadue anni. Quella Juve è troppo forte per chiunque, e a Rimini ancora si ricordano di quando Del Piero giocò al Romeo Neri festeggiando la partita numero 500 da professionista. Due anni più tardi, nel 2008, Del Piero completò la sua redenzione, e vinse per la prima volta il campionato cannonieri con 21 reti, eguagliando il suo record del 1998.
Nel 2008 la storia di Del Piero incrociò quella della nazionale per l’ultima volta. Si gioca sul prato dei vicini, in Austria e Svizzera. Del Piero diventa capitano dopo il forfait di Cannavaro, e litiga con Donadoni che lo fa giocare esterno: è l’ultimo capitolo di una storia sfortunata, l’Italia esce ai rigori. Sta per cominciare il dominio spagnolo. Dall’altra parte della barricata, durante la conferenza prepartita chiesero a Iniesta che cosa ne pensasse di Del Piero.
Sono ammirato dal fatto che Del Piero continui a segnare, è un fuoriclasse eterno. Ma qualcuno un po’ più giovane non ce l’avete?
Parole innocenti, che vennero travisate e strumentalizzate. Del Piero era certo in fase calante, ma voleva concludere la carriera a modo suo. In un modo o nell’altro, il calcio glielo avrebbe impedito.
Epilogo
Che cosa è stato Alex per l’Italia? Del Piero azzurro è stato molto diverso da Del Piero bianconero. Altre logiche, altre varianti. Paradossalmente, ha vinto il mondiale nel quale il suo ruolo di comprimario di lusso era ben definito: alle spalle di Totti che rientrava dall’infortunio. Secondo Capello, nel 2006 Del Piero era già in fase calante e riuscì a mantenersi ad altissimi livelli solo grazie alla sua professionalità. Sembra assurdo, ma la nazionale che vinse la coppa del mondo era meno forte di quella che giocò in Corea e Giappone.
Poi è arrivata la redenzione di Dortmund, un tiro per polverizzare dieci anni difficili, marchiando col fuoco il proprio nome sull’ultima grande impresa sportiva della nostra nazionale. Il grande tramonto di una carriera straordinaria. Al Westfalen, la corsa di Del Piero si è incendiata all’improvviso, dando un saggio dell’immortalità del suo talento.
Il talento cresce, migliora, va protetto e non invecchia. Maradona lo avrà per sempre: se tirasse una punizione, anche a ottant’anni metterà la palla all’incrocio. Siamo noi a invecchiare, il nostro corpo, non la classe. Il talento è pulizia del movimento.
Alessandro Del Piero