E allora diciamolo tutti insieme.. siamo Campioni del Mondo! Campioni del Mondo! Campioni del Mondo! Campioni del Mondo!
Giuro, ho i brividi. Ho i brividi per quell’Italia sul Tetto del Mondo.
Oggi non è un giorno qualunque, oggi è il 9 luglio 2006. Chiunque si ricorda il posto esatto, cosa indossava, cosa aveva mangiato, bevuto, urlato, pregato: il potere del calcio. Il potere di queste Notti, colonne sonore della nostra esistenza contrapposte al silenzio tombale precedente al rigore di Grosso.
Trovatemi un italiano che stava parlando in quel momento. Il cuore batteva, batteva forte, forte come quella selezione giunta alla fine di un ciclo desolatamente perdente; non mi capacito di come non siamo riusciti a vincere nel 2002, e non ricerco alibi nelle decisioni arbitrali surreali. Eravamo inferiori solo al Brasile.
Brasile troppo sazio dal Mondiale 2002 – anche Ronaldo vista la forma longilinea – ed eliminato dall’ultima Francia di Zidane, Henry, Trezeguet, Barthez: mostri sacri che mi emozionavano anche solo a trovarli nei pacchetti delle figurine. Già, naturalmente non poteva mancare l’album di quel Mondiale, tra i miei piagnistei alla Neymar per manipolare l’ipotalamo di mia madre che di fronte agli occhi dolci come un cambio-gioco di Pirlo non poteva resistere.
Partirono comunque i piagnistei: persi l’album e dovetti ricomprarlo.
Non persi comunque la fiducia. Ero piccolo, irrazionale, a dir la verità non ricordo proprio ogni sensazione che mi passava per la mente: ricordo che Adriano Leite Ribeiro riuscì a far vacillare la mia fede rossoblu, quello si. Al Mondiale segnò due gol, fu il suo ultimo. La sua ultima gloriosa apparizione.
Ma in quel momento Adriano non m’importava. In quell’estate contava solo l’Italia.
Contava davvero, l’Italia. Furono anni difficili per me, sportivamente parlando: conobbi la delusione, le parlai, la toccai, e la vidi sotto le sembianze di una valigetta che transitò il Genoa dalla A alla C, in un attimo. Ho riaperto la ferita, maledizione. Vidi Milito, il mio primo amore calcistico, segnare sotto l’incrocio al Venezia e qualche settimana dopo andarsene al Saragozza: poi tornò e il resto è storia.
Ed è storia il nostro Mondiale: l’ultimo di Totti, triturato pochi mesi prima da Richard Vanigli che mise in apprensione un paese intero. L’Italia si affidava principalmente Del Piero, dovevamo reagire dopo il 2002: altra grande delusione della mia adolescenza, lanciai il Maxibon in preda alla roba. E il gelato non lo spreco mai.
Allora, dai, mi sembra l’immagine giusta per tornare al tema caldo, al 9 luglio 2006.
Non so voi, ma io ricordo tutto. Ricordo l’inquadratura iniziale di Chiellini sugli spalti, con i capelli: tic tac, le lancette girano irreversibili. E non gira la ruota all’Italia: ancora una volta errore arbitrale, che incubo. Ricordo Florent Malouda che sguscia via tra Cannavaro e Materazzi lasciandosi cadere come la Germania ogni volta che ci incontra in gare ufficiali: potevamo lamentarci, fino a un certo punto, Grosso si era ugualmente buttato contro l’Australia.
Traversa, traversa! Non è gol! Non è gol!
È gol è gol.
È gol.
Ricordo Bergomi che spezza l’entusiasmo di Caressa come un killer spietato al rigore di Zidane: rimasi pietrificato. E ci rimango pure adesso, riascoltando il suono cupo della sua voce.
Sbuffai per un paio di secondi buoni, intensi, e mia madre ipotizzava che avessi caldo. Avevo freddo, avevamo tutti freddi, Zidane ci aveva ghiacciati.
O forse il fuoco dentro all’Italia era troppo ardente per essere spento subito.
No, giuro, i brividi s’intensificano come un comune gegenpressing di Klopp e mi marcano stretto. Sarà che in questo pezzo le emozioni sono libere di sguazzare e di autoconformarsi in maniera liberale, quasi hippie, come se fossero figlie dei fiori nel marasma di Woodstock: mi viene in mente l’autogol di Zaccardo e mi placo.
Riprendo il flusso di ricordi indelebili e intanto ascolto Quelli che non hanno età degli Eiffel 65, rispolverata oggi tramite una casualissima instagram stories di un mio amico che ringrazio vivamente. Già, quei ricordi non hanno età, non invecchiano, rimangono lì nella loro eterna e fresca gioventù; come gli azzurri che battagliano contro una grandissima squadra. Caressa si lascia andare a un momento di indubbia dislessia con un Iaquinta gol! Toni! prontamente annullato: niente Paolo Rossi bis, a prendersi la scena è un organico fortissimo, in cui ci siamo identificati parecchio.
Tutti recitavano un ruolo, tutti erano amati. Da Buffon ad Amelia, da Cannavaro a Barzagli, a Barone che pochi giorni fa ha ricevuto il pallone di Inzaghi: intanto la mia pelle, digitando questi nomi, non rimane indifferente. No, è rimasta impassibile quando ha visto Pellegrini contro la Francia qualche mese fa.
Non rimane indifferente quando Buffon soffia sul pallone di Ribery.
A distanza di 12 anni temo ancora che possa entrare. Non ha senso, lo so, ma dobbiamo partire dal presupposto che tutto ciò che ho scritto esula dal concetto di senso: la parata di Buffon, anche quella non ha senso. Decisiva.
Quante volte, voi portieri, che sia nel vostro campionato o in giardino avete rivisto questa prodezza magari per caricarvi o per autoconvincersi di riuscire quantomeno a imitarla? Sono gesti iconici, talmente iconici da farci ricordare la reazione dinanzi a quel gesto, 12 anni fa: esaltazione.
Ero esaltato. Non urlavo tanto ma dentro avevo come una lavatrice che girava ininterrottamente: immaginate emozioni diverse al posto dei panni sporchi. Tensione, più alta di Materazzi, speranza, di poter vivere la mia Prima Grande Vittoria Sportiva. E dopo i supplementari, solo i rigori separavano me da questo sogno, dal Nostro sogno. L’Italia era ad un passo dalla gloria.
Era l’occasione per scacciare la fatidica maledizione rigori.
Nel 1994 e 1998 la lotteria costò cara, ma in quel momento non ci pensai: anche perché, all’errore di Baggio sgomitavo ancora in grembo. Non poteva vincere la Francia, dopo quel nefasto tocco di Wiltord; è sempre lì, l’ex Lione, si presenta dopo Pirlo e spiazza Buffon che, a differenza della finale di Champions del 2003, non para alcun rigore.
Avevo gli occhi aperti, sbarrati, collegati alla televisione come se fossero un qualche cavo supplementare per migliorare la qualità dei pixel. Ricordo Caressa che impazzisce all’errore di Trezeguet, sento un boato dai vicini: mi trovavo nella splendida Bonassola, un piccolo e regale comune in provincia di La Spezia, città che ora ospita il campione del mondo Gilardino. Chissà se l’avesse tenuta dalla bandierina contro la Germania.
Ok, ora accelero, mi stavo perdendo. Ho bisogno di esplodere. Ne abbiamo bisogno tutti.
Non serve il supporto audio, la telecronaca la conosciamo a memoria. Siamo Campioni del Mondo!
Non ci credo ancora. Ma è tutto vero. Tutto il resto non conta, ora: lo diceva Max Pezzali, basta un giorno così a cancellare centoventi giorni stronzi. A quei tempi non so quanto potessero essere stagnanti quei giorni, più adesso.
Di quella sera, però, rimpiango una cosa: di essere stato troppo piccolo.
Magari siete empatici nei miei confronti, magari eravate già abbastanza grandi, fatto sta che viverlo con gli amici, festeggiare insieme a loro con fiumi di birra, sarebbe stato bellissimo: avere più che altro una coscienza diversa mi avrebbe fatto capire quanto grande sia stata l’impresa del 2006. Ma d’altronde non si può avere tutto, anzi, bisogna saper apprezzare le piccole cose, quelle piccole sensazioni che colorano la tela della nostra vita.
Piccole cose come questi meravigliosi 45 secondi.
Ho vinto più io che Ciro in vent’anni, Occhio che Ciro tocca. Per non parlare dell’oro massiccio di un Oddo visibilmente ubriaco, proprio come Gattuso in studio. Totti e Cannavaro che s’intervistano e si scatenano con brevissimi poemi guinizzelliani.
Ma sopratutto la felicità dell’Italia, degli italiani. Di un popolo sportivamente ferito, che ha bisogno vitale di questa giornata per ricaricarsi dopo le innumerevoli batoste raccolte nel post-2006. Triste dirlo, ma quel 9 luglio 2006 segna un’Italia che non c’è più, sepolta nel 2010 dalla non-energia di Lippi e di un gruppo svuotato, ma soprattutto da una lenta decadenza di una Federazione che non ha saputo premere i tasti giusti per un ricambio generazionale non idoneo.
I problemi abbondano, inutile nascondersi. Oggi non pensiamoci. Oggi sorridiamo, esultiamo, riguardiamo, ripercorriamo con la mente le immagini, i frame iconici che ognuno conserva nella propria anima per sentirsi vivo. Il nostro partner, i nostri amici, i nostri cari, chiunque sia stato lì in quel frangente con noi. Oggi pensiamo a Zidane che dopo l’espulsione si lascia alle spalle la Coppa, a un Cannavaro che, quella Coppa, la bacia e la alza al cielo. Pensiamo ad un’Italia che nel pieno marasma di Calciopoli ha saputo rialzarsi. Un’Italia che ci ha tenuto sulle spine, con quel rigore di Totti x10, con quell’idilliaco Germania-Italia.
Però dobbiamo rialzarci. Lo rifaremo dal 10 luglio, ma non voglio sentire discorsi del tipo eh, ma con Totti e Del Piero… No, quei mostri sacri lasciamoli lì, valorizziamo ciò che abbiamo consapevoli di non essere più al top e lavoriamo. Dal 10 luglio, però.
Oggi, abbracciamoci forte e vogliamoci tanto bene.