Umiltà. Quando ci si chiede come ha fatto l’Italia del 2006 a vincere il Mondiale, la risposta deve avere tra le sue righe la parola umiltà. Quella che è mancata nel 2010, che nel 2014 abbiamo perso del tutto, che nel 2016, per forza di cose, abbiamo ritrovato e fatto nostra, così come avevano fatto i ragazzi di Lippi dieci anni prima.
Sì, sono passati dieci anni dalla notte di Berlino, dall’urlo di Caressa che descrisse il cielo azzurro come le nostre divise, non grigio come quello che ospitava le Olimpiadi del ’36. Eppure lo stadio era lo stesso, l’Olympiastadion che fece raggelare tutte le nazioni del mondo per la sua grandezza, che lasciò di sasso gli americani e i russi, a tratti i tedeschi stessi, spettatori paganti e non di una meravigliosa coreografia architettonica eretta dalle mani dei propri compatrioti.
Ma per vivere, un insieme di calce e mattoni ha bisogno di un’ anima e, il 9 luglio 2006, l’Italia ha portato la sua su quell’erba dolcemente levigata, tra linee perfette di gesso a fare da contorno a un campo da calcio ancora oggi ricordato con folle passione da parte di ogni singolo italiano. Perché la vittoria di Berlino è stata la realizzazione di un sogno di tutti, di chi si sentiva atterrito dal vivere un calcio sporco e macchiato da scommesse e mazzette, di chi non si rispecchiava tra i volti di quegli uomini che portavano con disonore la maglia che un tempo fu di Rivera e Baggio.
Le parole degli italiani erano solo di disprezzo, frecce incandescenti per quei calciatori che sembrava avessero venduto la propria dignità per soldi, quell’amore per una maglia che sembrava essere solo una scusa per agire alle spalle dei tifosi, vittime innocenti della loro stessa passione. Ma quel gruppo di eroi, quei 22 giocatori che fecero gridare di gioia una nazione intera in una calda notte di Luglio, ridiedero speranza a chi credeva non ve ne fosse più per il calcio italiano.
La fiammella si accese con la vittoria sul Ghana, troppo inferiore rispetto a noi, troppo impotente davanti a un tiro di Pirlo da 20 metri, davanti a uno Iaquinta che sarebbe esploso proprio negli stadi tedeschi. La cera si iniziò a sciogliere nelle due successive partite, con Materazzi e Inzaghi autori della vittoria sulla Repubblica Ceca, con Gilardino e Zaccardo che, positivamente il primo, negativamente il secondo, conclusero il girone con quel pareggio molto più che stretto contro gli USA.
E di lì in poi la candela si iniziò a consumare a dismisura: tutti splendevano, non c’erano punti bui su quel terreno di gioco, ognuno era fondamentale, ognuno non era più additato come indegno. Forse è proprio questa la magia della Nazionale: ha fatto dimenticare ai laziali, per un secondo, che Totti ha segnato all’ultimo minuto contro l’Australia; ha reso gli scettici amanti di Luca Toni contro l’Ucraina; ha trasformato un’intera generazione di ragazzi nel voler fare il terzino come Grosso, per segnare un goal come quello contro la Germania. La Nazionale ha reso passato, in un presente che era più vivo che mai, le querele sulle varie intercettazioni e giocate che condannavano, ancora una volta, la penisola, sponda FIGC.
Così, come quando sorge il sole, in quel momento impercettibile tra notte e alba, gli azzurri si sono trasformati in supernova sotto il cielo illuminato di Berlino, contro i cugini francesi, contro ‘les Bleus‘ in maglia bianca e arroganza dipinta in volto. Non si sono abbattuti dopo il vantaggio transalpino firmato Zidane, hanno fatto saltare milioni di persone dai divani di casa con il pareggio di Materazzi, facendo trattenere il respiro persino all’arbitro in una lotteria dei rigori che chiunque abbia vissuto quella notte, ancora ricorda a memoria.
Pirlo, Materazzi, De Rossi, Del Piero. L’ultimo nome non c’è neanche bisogno di scriverlo, perché nello stesso istante in cui vi accorgerete che non c’è, significa che starete già a gridare come forsennati, scandendolo in sillabe, così come tutti abbiamo fatto in una gaia, umile notte stellata di dieci anni fa.