Premessa
Il principio di autodeterminazione dei popoli, fin dai tempi di Woodrow Wilson, è stato uno dei pensieri più alti al quale un essere umano possa arrivare.
L’idea secondo cui un popolo, in quanto tale, abbia il diritto di scegliere quale sistema di governo avere e, soprattutto, di essere libero da ogni dominazione straniera è una forma mentis che, tuttavia, potremmo definire ambigua, vista la facilità con cui un’ideologia di tale profondità e generalità può essere applicata nella società moderna.
È necessario, prima di un qualsiasi tipo di discorso, capire come e perché, nell’arco del ventesimo e ventunesimo secolo, questo diritto è stato usato, giustamente, e abusato.
Se parliamo di utilizzi, al di là della sua teorizzazione alla fine della Prima Guerra Mondiale, non possiamo che pensare al crollo dei grandi imperi coloniali, con le secessioni in Africa e nelle Indie orientali, negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso.
L’orrenda, nefasta, epoca nota come colonialismo era giunta al termine e l’ideale dell’autodeterminazione tornò prepotentemente in auge, per ispirare persone che non avevano più nessuna voglia di essere dominati da chi provava ad imporgli usi, costumi, culture e lingua diverse dalle loro.
Non sono mancati anche gli utilizzi ingiusti, basti pensare a molti moti indipendentisti di alcune regioni in paesi occidentali, anche qui in Italia, che non avevano alcun ragion d’essere, se non per alcune, presunte, ragioni economiche.
Conoscere questo principio è di fondamentale importanza per provare a capire quanto, in questi giorni, sta capitando in Catalogna.
Ora, il lettore si starà chiedendo se le rivendicazioni di Barcellona possano essere considerate un utilizzo proprio o improprio dell’idea teorizzata dal presidente Wilson durante i trattati di pace di Versailles nel 1919.
La risposta a questa domanda è di una difficoltà estrema e, come spesso capita, la ragione totale non esiste, ne per l’una ne per l’altra parte.
Da una parte infatti, il governo spagnolo si fa portatore di una costituzione, votata dalla stessa Catalogna in cambio di notevoli autonomie in molti ambiti, che garantisce l’unitarietà e l’indivisibilità della Nazione, dall’altra però abusa del suo potere, reprimendo, non tanto le votazioni che, tutto sommato, vista l’incostituzionalità del referendum, avrebbe avuto anche il diritto di fare, quanto le proteste e i cortei che si sono susseguiti in tutta la regione.
Poi ci sarebbe anche da chiedersi, con una buona dose di buon senso, se non sia il caso di ascoltare le richieste di autodeterminazione di un popolo che, nel corso dell’ultimo secolo, ha provato a ottenere l’indipendenza fin dagli anni ’20.
Oltre il semplice Fùtbol
Posta questa lunga, ma doverosa, premessa, molti di voi si potrebbero domandare cosa c’entri un discorso esclusivamente storico e politico, con un pezzo che, in teoria, dovrebbe parlare di calcio o, almeno, di calcio giocato.
Ribadito che, come diceva uno che i catalani li ha fatti piangere parecchie volte, “ chi sa solo di calcio, non sa nulla di calcio”, è incredibile quanto il fùtbol abbia assunto importanza, all’interno di un contesto che con il pallone non dovrebbe avere molto a che fare.
A testimoniarlo sono le foto che hanno fatto il giro del mondo di Barcellona-Las Palmas, giocata a porte chiuse (prima volta nella storia), con Piquè in lacrime dopo la gara vinta dai blaugrana, o ancora il video degli oltre 13 mila spettatori di Girona-Barça della settimana prima che intonano, all’unisono, “votarem”, “voteremo”.
La maestosità del Camp Nou deserto è forse il simbolo più forte di queste giornate, in cui tutti sembrano aver perso il filo della ragione, con i suoi colori a simboleggiare il sangue versato, il rosso, e la notte perenne in cui il popolo spagnolo sembra aver vissuto nelle ultime settimane, il blu.
Mes que un club
In mezzo a quei colori, grande e pesante come un macigno, quel “mes que un club” che oggi ci sembra più vero che mai, autentico.
Il Barcellona è sempre stato più di un semplice club, almeno per la sua gente.
Ultimo baluardo di un catalanismo che, durante la dittatura franchista, venne brutalmente spazzato via, cancellato, vittima di una damnatio memoriae per la sola colpa di esprimere l’identità, la cultura di una parte della nazione, da sempre contraria agli ideali fascisti del Caudillo.
Quando diciamo “ultimo baluardo” non usiamo un termine casuale, infatti il Camp Nou, tra il ’39 e il ’75, fu l’unico posto dove la repressione non riuscì ad entrare e dove gli abitanti di Barcellona poterono continuare a parlare il catalano, senza il rischio di essere scoperti, come succedeva ovunque altrove.
Un bunker calcistico e non solo.
Anche in campo i giocatori portarono alto onore della Catalunya, sentimento arrivato all’apice con l’arrivo di Johan Cruyff, catalano d’adozione, che chiamò addirittura suo figlio Jordi.
Lui, straniero, che non aveva alcun interesse a farlo per le conseguenze che avrebbe potuto patire, ma che decise di godere appieno della sua libertà d’espressione, quella negata alla gente per cui scendeva in campo, che mai avrebbe potuto chiamare il figlio con un nome che rimandasse all’orgoglio catalano.
Orgoglio catalano sbandierato anche dall’allievo prediletto di Cruyff, Josep Guardiola che con un controverso discorso, qualche mese fa, aveva incitato la folla al voto, come raccontato in questo video.
Tornando al presente, sembra strano pensare come, in un periodo storico dove va molto di moda il politically correct, un team della caratura del Barcellona non abbia mai avuto paura di esporsi e, benché il consueto ermetismo a parole, quella seconda maglia negli ultimi cinque anni è sempre stata piuttosto esplicita su cosa si pensasse dalle parti della Masia.
Evidentemente la Nike, passando dal “le scarpe le comprano anche i repubblicani” di Jordan alla filosofia Barça, ha deciso di diversificare le ideologie, una chiara mossa per massimizzare i profitti.
Forse, vedendola dall’esterno, non ci abbiamo mai prestato la dovuta attenzione, ma quella maglietta ha un valore incredibile, sarebbe come se Inter o Milan avessero sempre una maglia verde come seconda, per fare l’esempio più semplicistico possibile.
Sarebbe giusto dire, anche per smorzare leggermente i toni, che è un bene che sia carica di significato, anche perché fino ad ora, almeno a livello estetico, non ne hanno azzeccata nemmeno una.
Ricorsi storici
In tutto questo clamore e caos, provate ad immaginare cosa sarebbe potuto succedere se ci fosse stato in programma un Barcellona-Real Madrid in questi giorni, avrebbero giocato? E, se si, in quale clima?
I due contendenti di questi giorni, il Re Felipe e il presidente della Generalitat Puigdemont, idealmente contro su un rettangolo verde, la perfetta sceneggiatura di un regista con una perfidia degna del miglior Kubrick.
Tutto sommato, per i Blancos, e per el Rey, è un bene che l’incontro sia in programma solo per fine dicembre perché, guardando ad un ricorso storico simile, l’ultima volta che una squadra legata alla corona affrontò una formazione d’ispirazione indipendentista correva l’anno 1911, nella finale della Indian Football Association Shield a Calcutta, East Yorkshire, la squadra della corona inglese, contro Mohun Bagan, la squadra dei giovani Indù.
Contro ogni pronostico, la gara finì 2 a 1 per il Bagan e da lì in poi sarà Ghandi, marcia del sale, Nehru e indipendenza.
Somos hombres
Che poi, parlando di indipendenze e rivoluzioni, spesso finiamo per dimenticarci che la storia è fatta di uomini, dell’intrecciarsi delle loro vite nel marasma degli eventi.
La storia è fatta di Gerard Piquè che piangono, consapevoli che per portare fino in fondo le loro idee dovranno fare molti sacrifici, come avanzare l’ipotesi di non giocare quello che potrebbe essere l’ultimo mondiale della carriera e poco importa se hai un conto in banca a sei zeri e Shakira che ti aspetta a casa, come se il denaro e le donne potessero scalfire la lotta per i propri ideali.
La storia è fatta di Julen Lopetegui, uno dei pochissimi mostrare buon senso, esponendosi personalmente per dire quanto Piquè e i catalani siano stati importanti per la nazionale spagnola nei successi di questi anni e che ci terrebbe ad averli in nazionale, non lo sappiamo per certo, ma siamo abbastanza sicuri che, da qualche parte, Vicente Del Bosque stia annuendo; la storia è fatta, perché no, anche di Sergio Ramos, madridista doc, che dividerà il centro della difesa proprio con Piquè, il capitano del Real fianco a fianco con il simbolo sportivo dell’indipendentismo catalano.
Tutta la commozione di Gerard Piquè
A questo punto, inutile girarci intorno, immaginiamo vi stiate chiedendo da che parte stiamo noi.
Non stavamo temporeggiando, dirlo è semplicemente impossibile. Si, un po’ perché da entrambe le parti si è superato il limite, un po’ perché trapela la sensazione che le cose come stanno realmente, forse non ci è ancora dato saperlo e, si sa, quando le opinioni parziali corrono per le strade indisturbate, la verità è ancora a casa che si sta allacciando le scarpe.
L’unica certezza è che, al prossimo Real Madrid-Barcellona, spagnoli e catalani, parafrasando De Andrè, vedranno degli uomini in fondo alla valle che avranno il loro stesso identico umore, ma la divisa di un altro colore.