Caro Frank,
Ci siamo presi un po’ di tempo prima di scrivere del tuo addio al calcio, perché in occasioni del genere fermarsi a pensare è quantomeno doveroso. Magari fosse facile mantenere la lucidità in queste situazioni.
“Che sarai mai successo?” potreste dire e, in effetti, cosa sarà mai un il ritiro di un giocatore, è il ciclo normale della vita di un atleta.
Già cosa sarà mai?
Non lo so, forse siamo inguaribili romantici, ma il tuo addio è stato un brutto colpo da digerire. Un pezzo di una generazione abbandona definitivamente il manto erboso.
Spesso abbiamo provato a raccontarvi questo meraviglioso mondo che è lo sport in generale, e il calcio in particolare, con una vena ironica, ma qui francamente ci sembra dura. Non tanto perché ci sia qualcosa di tragico in questa vicenda, alla nostra generazione il tuo nome strapperà sempre un sorriso, quanto perché, a quel sorriso, la maggior parte di noi ragazzi nati negli anni ’90 farà seguire una lacrima, accompagnata da uno sguardo malinconico.
Si, perché è come se con te se ne fosse andata anche la nostra infanzia, via così, in un istante, caduti dal pero, come se non ci fossimo accorti che non siamo più delle piccole pesti di 10 anni e che il 2006 era 11 anni fa.
Sappi, caro Frankie, che per tutti quelli che hanno sognato almeno una volta di scivolare con te e Drogba sul perfetto manto erboso di Stamford Bridge il giorno del tuo ritiro è stato traumatico, come una finale di Champions persa.
Ci siamo sentiti impotenti contro quel tempo infame che prima ti fa assaporare uno spettacolo meraviglioso, dandoti la sensazione che sia eterno, e poi te lo porta via come un ladro. Perché, in fondo, nulla dura per sempre.
Ora ci sembra di non averti apprezzato abbastanza quando potevamo ammirarti ogni weekend, o durante quelle serate di Champions in cui si faceva zapping tra voi, il Liverpool di Gerrard e l’Arsenal di Henry, incantati, imbambolati davanti al televisore, sognando di essere lì, un giorno a giocare al tuo fianco.
Per non parlare di quel giorno a Mosca.
Dio solo sa quanto pioveva quella notte, si potevano sentire i goccioloni anche dal divano.
Il ricordo nitido di te che batti Van Der Sar prima di baciarti il polso e alzare le braccia al cielo, come sempre hai fatto da quando la tua adorata mamma Pat se ne è andata in paradiso, è lì, stampato nella mente. Una generazione intera, migliaia di bambini, avevano ottenuto la possibilità e il pregio di poter vedere la partita fino alla fine, tanto ormai la scuola era quasi finita ed era un peccato capitale perdersi la prima vittoria in Champions tua, di Terry, di Drogba, di Cech, di Ballack.
Quella sera ci pensò uno scivolone beffardo a farvi perdere e alla fine non rimase che la pioggia, mentre a festeggiare erano Cristiano Ronaldo e compagni.
Nessuno avrebbe previsto la vittoria di quella famigerata Champions. Certo, eravate sempre lì ad un passo, eppure il destino aveva architettato una strategia diabolica, per cui ogni squadra aveva qualcosa in più, il “quid” che alla fine portava alla vittoria finale.
Poi è arrivato quel famigerato 2012.
Anche lì sembravate quasi fuori, lo ammetterai, in quella gara al San Paolo non ci avevate capito nulla: Lavezzi, Hamsik e Cavani vi avevano sotterrato, finì 3-1 ma se i partenopei avessero segnato 5 gol non ci sarebbe stato nulla da recriminare.
Evidentemente lì è scattato qualcosa, di storie così nello sport ce ne sono tante, di pronostici ribaltati come quello della sfida tra voi e il Barça in semifinale un po’ di meno.
Ma quando Torres è partito solo in contropiede, avendo come avversari solo Valdes e i 90mila e passa del Camp Nou, allora no, era vostra, non c’erano Bayern o Allianz Arena che tenessero.
Il risultato era già scritto, e quando Drogba – a cui andrebbe aggiunto un “meravigliosamente, incredibilmente” – trasformò quel rigore, l’impossibile si era materializzato in realtà. Il miracolo vostro e di Di Matteo, subentrato a Vilas Boas in una situazione semi disperata, era compiuto.
Quanto eri felice con quella coppa in mano? Felice come non lo sei mai stato, forse. Non c’è dubbio che tu, Drogba e Terry ve la foste meritata più di tutti. Si, per anni ve l’avevano scippata, vi hanno negato rigori, gol, punizioni, cartellini, eppure eravate sempre lì a riprovarci a testa bassa e con la consapevolezza che fosse ancora possibile, anche se realmente non lo sembrava più.
Sarebbe bello poter riavvolgere il nastro del tempo, tornare a quei sabato pomeriggio piovosi di novembre in cui illuminavi il grigiore di Londra, in cui la noia delle ore prima del sabato sera venivano allietate da una tua bordata da fuori o da un tuo inserimento perfetto.
Due settimane sono passate e ancora non sembra vero.
Guardando i dati della tua avventura a New York, si può notare che anche lì l buttavi dentro spesso, a volte magari sembrava anche che avevi la leggerezza di un tempo; hai giocato con Pirlo, quanto sarebbe stato bello vedervi insieme all’apice della vostra carriera, chissà che danni agli avversari.
Invece, ironia della sorte, ci è toccato vedervi solo in malinconici highlights “sulle partite della notte”.
Quindi, dear Frank, ora non ci resta che dirti grazie.
Grazie perché sei stato innanzitutto un esempio da seguire; mai sopra le righe, mai arrogante, sempre pronto a regalare un sorriso e una pacca sulla spalla ai compagni in difficoltà, ogni persona che si affaccia al mondo dello sport dovrebbe prendere spunto da te.
Grazie perché hai reso l’infanzia di migliaia, forse milioni, di ragazzini migliore; chissà quanti hanno pregato, almeno una volta, di poter diventare come Frank Lampard.
Grazie perché hai dimostrato come si possa far parlare di se solo per motivi calcistici, senza macchine di lusso in bella mostra, senza scandali, senza dichiarazioni altisonanti.
Hai dimostrato come si possa essere uno dei più grandi senza per questo avere degli haters, sei stato amato da tutti, parlare male di te era praticamente impossibile, forse questa è stata la tua più grande qualità.
Anche, e soprattutto per questo, grazie.