Avete mai pensato a quanto, nella nostra vita, sia sottile il confine che separa la gioia dal dolore, oppure la gloria dal fallimento, o ancora il paradiso dall’inferno?
Voglio dire, due concetti apparentemente opposti possono apparire vicinissimi, o addirittura confondersi se solo qualcosa cancellasse quel sottilissimo margine.
Prendete la storia di Pierre-Emile Hojbjerg ad esempio: a 18 anni, nel 2013, è un promettentissimo centrocampista con già diverse presenze nella squadra campione d’Europa in carica, il Bayern Monaco, in sostanza il sogno di chiunque abbia mai tirato calci ad un pallone.
Eppure in quel giorno d’autunno, prima dell’allenamento, non riesce proprio a trattenersi, a bordo campo inizia a piangere a dirotto e la disperazione sembra incatenarlo senza via d’uscita.
Piange perché la vita gli ha messo di fronte una sfida ben più difficile che segnare un gol in rovesciata in finale di Champions League: suo padre Christian è affetto da un cancro allo stomaco che sembra molto grave.
Improvvisamente il sogno del giovane Pierre è diventato il peggiore degli incubi, quello di chi si rende conto che sta per perdere una delle figure più importanti della propria vita e non può farci niente.
Il primo ad accorgersi di lui in quella fredda mattinata bavarese è quello che, da pochi mesi, è il nuovo tecnico del Bayern, Pep Guardiola, che si avvicina provando a consolare il ragazzo.
Alla fine anche lui però, forse pensando alla situazione che stava vivendo in quel momento il suo grande amico Tito Vilanova, scoppia in un pianto liberatorio, promettendo a Hojbjerg che lui e la società si sarebbero presi cura del padre.
Pep stravede per il giovane danese, lo plasma per farlo diventare il suo nuovo Busquets: ovviamente i grandi campioni che ha davanti non gli permettono di giocare stabilmente da titolare, però nella prima stagione e mezzo di gestione Guardiola riesce spesso e volentieri a ritagliarsi diverso spazio dalla panchina e l’esplosione sembra imminente.
Anche in patria impazziscono improvvisamente per quel ragazzino lasciato partire prestissimo, non hanno dubbi, lo considerano il più grande talento prodotto dal movimento dai tempi di Christian Eriksen, mica poco quando sei ancora un teenager.
Certo, lui ci mette molto del suo, facendo innamorare tutti fin dall’esordio in Under 21. La Nazionale sta perdendo 2-1 con la Slovacchia, ma Pierre si sveglia: prima accorcia le distanze con un meraviglioso tiro all’incrocio, poi trova il pareggio beffando il portiere su punizione.
Non male come esordio.
Guardiola, già che c’è, diventa una sorta di secondo padre per il giovane centrocampista perché, nonostante tutti gli sforzi possibili, Christian Hojbjerg muore, esattamente come Vilanova, divorato dal cancro nell’aprile del 2014: Pep quasi si scioglie, oscilla in un pendolo tra le capacità di allenatore e l’affetto genitoriale.
È proprio lui a consigliarli, nel gennaio 2015, di trasferirsi per 6 mesi all’Augsburg, dove si guadagnerà una maglia da titolare e aiuterà i suoi a raggiungere un incredibile 5º posto in campionato, miglior piazzamento nella storia del club che per la prima volta si qualifica per le coppe europee.
Sembra finalmente arrivato il momento della consacrazione in maglia Bayern e invece, ancora una volta, l’ennesimo turning point della sua carriera gira per il verso sbagliato.
A Monaco non credono più in lui e decidono di cederlo, nuovamente in prestito, allo Schalke 04, dove lo aspetta il difficile compito di non far rimpiangere Julian Draxler, appena accasatosi al Wolfsburg.
Forse per la delusione, forse per il disincanto, la stagione nella Ruhr si rivela deludente, con Hojbjerg che poche volte vede il campo da titolare e nemmeno una volta riesce a segnare.
Ironicamente, la scena tra i giovani a Gelsenkirchen gliela ruberà quel Leroy Sane che sarà uno dei primi colpi di Guardiola non appena arrivato al Manchester City, quando si dice il destino beffardo.
Non si fa tuttavia problemi il Southampton a sborsare 15 milioni per portarlo alla corte di Puel: il ragazzo ha talento, buttarlo via come se fosse una carta da regalo di Natale sarebbe sprecato.
Il francese ne intuisce subito le potenzialità e, dopo un periodo di adattamento necessario, inizia a inserirlo costantemente tra i titolari, facendolo agire da mezzala nel suo centrocampo a tre, ruolo in cui sembra che il talento stia rifiorendo.
Unica falla che continua a persistere nel suo gioco è lo scarso feeling con il gol, il che, per il tiro che ha a disposizione è abbastanza inspiegabile.
Da uno che tira così qualche gol me lo aspetterei.
Chissà che un giorno non si possa chiudere il cerchio e Hojbjerg non diventi veramente il nuovo Busquets, magari proprio al Manchester City di Pep Guardiola, o meglio, nella squadra del suo padre calcistico.
Per ora però meglio non pensarci. Pierre rimane calmo, consapevole di essersi illuso troppe volte: stavolta no, il ragazzo ha imparato e continuerà con i piedi per terra, la testa sul campo e uno sguardo rivolto al cielo. Perché è questo che vorrebbe il padre.