L’ ho visto sempre con una maglia, sempre con un numero, sempre capitano. L’ho visto centrocampista, attaccante, esterno, trequartista, seconda punta, prima punta, e poi di nuovo esterno e poi ancora seconda punta. L’ho visto in ogni zona di campo. L’ho visto genio, l’ho visto sregolatezza, l’ho visto costante.
L’ho visto invadere di ricordi la mia memoria felice
L’ho visto segnare di testa contro il Belgio, l’ho visto fare il cucchiaio: il suo marchio di fabbrica, il gesto che lo ha consegnato alla storia, in una semifinale, ai calci di rigore, contro i padroni di casa dell’Olanda – una partita che meriterebbe un capitolo a sé – a un portiere alto 197cm, Edwin Van der Sar.
Pazzo.
Erano gli Europei del 2000 e l’ho visto tranquillo, incosciente, arrogante, presuntuoso, elegante. Ho visto il miglior giocatore di quella competizione. Per distacco.
L’ho visto conquistare lo Scudetto da vero trascinatore, da grande capitano. Ho visto un Re. Ho visto Roma e i romanisti letteralmente ai suoi piedi.
L’ho visto rifiutare la corte spietata di denari del Real Madrid di Florentino Pérez. Sistematicamente dal 2000 al 2006.
Gli ho visto fare lo stesso gesto atletico centinaia di volte, senza mai stancarmi, stupendomi ogni volta come la prima: quel lancio in profondità, di prima, con le spalle per metà rivolte verso la porta, che non ho mai visto fare a nessuno. Forse – e lo tolgo – perché è inumano.
L’ho visto segnare sempre con il cucchiaio, da fuori area, ad Angelo Peruzzi e a Francesco Toldo. L’ho visto segnare punizioni da oltre trenta metri con le tre dita. L’ho visto segnare dribblando quattro giocatori nello stretto, l’ho visto segnare dribblando quattro giocatori in progressione. L’ho visto segnare gol semplici, d’astuzia.
L’ho visto segnare gol impossibili.
Ho visto uno stadio, quello del Luigi Ferraris di Marassi, ammutolirsi e dei tifosi, quelli della Sampdoria, alzarsi in piedi per applaudirlo dopo un gol sensazionale: palla proveniente dal versante destro da oltre trenta metri, tiro al volo, di sinistro dal versante sinistro dell’area di rigore, palla in un angolo che non esiste.
Non esiste.
Una coordinazione vergognosa per sfrontata bellezza, che se l’avesse visto Kant avrebbe riscritto il concetto di Sublime.
L’ho visto segnare in un derby ed esultare scivolando in ginocchio sull’erba, dedicando il gol alla propria fidanzata con la maglietta 6 unica. L’ho visto sposare quella ragazza a cui ha dedicato il gol, Ilary Blasi, in diretta nazionale.
L’ho visto coi capelli lunghi, coi capelli corti, in tv in qualsiasi spot pubblicitario, in edicola con un libro sulle barzellette incredibilmente autoironico.
L’ho visto esultare ballando, con una telecamera, col dito in bocca, facendosi un selfie.
L’ho visto gesticolare zitti, quattro e a casa contro la Juventus.
L’ho visto essere ingiustamente espulso da Byron Moreno, agli ottavi di finale, contro i padroni di casa della Corea del Sud – un’altra partita che meriterebbe una capitolo a sé – in un mondiale, quello del 2002, che non l’ha visto mai decisivo. L’ho visto essere giustamente squalificato all’Europeo del 2004 per aver sputato all’amorevole Christian Poulsen.
L’ho visto tirare un calcio di indubbia scorrettezza e cattiveria a Mario Balotelli in una finale di Coppa Italia.
L’ho visto giocare male, inveire contro arbitri, essere sostituito, essere criticato dai media per la sua poca concretezza in Nazionale. L’ho visto rimanere (quasi) sempre in silenzio e continuare a giocare. Dimostrare coi fatti. Sul campo. L’ho visto, così, reinventarsi prima punta.
L’ho visto poi piangere per un fallo, lui che è, a sensazione, il giocatore ad aver subito più falli nella storia della Serie A: frattura del perone e interessamento dei legamenti della caviglia. Addio Mondiali.
No.
L’ho visto allenarsi dal giorno dopo l’operazione, in piscina, in palestra, a casa, e ho visto un allenatore, Marcello Lippi, aspettarlo, con incondizionata fiducia – leggetela fede – e metterlo al centro del proprio progetto.
Mondiali 2006
L’ho visto, quindi, scendere in campo quattro mesi dopo, in Germania, e giocare con la sofferenza di chi ha otto viti piantate nella caviglia sinistra, con la sofferenza di essere il più forte di tutti e non poterlo mai dimostrare appieno, con la sofferenza di chi ha mezz’ora nelle gambe e ne gioca minimo sessanta.
L’ho visto in una calda giornata di fine Giugno entrare dalla panchina: è l’ottavo di finale contro l’Australia di Guus Hiddink. La storia è incredibilmente circolare, i greci ci vedevano troppo bene, e non a caso l’olandese allenava quella Corea del Sud.
Il risultato è di zero a zero, e siamo in dieci da metà del primo tempo, quando l’eroe di quel mondiale, Fabio Grosso, si conquista un rigore di dubbia valenza: è il 90′ e sul dischetto si presenta Lui. L’ho visto guardare l’arbitro: uno degli sguardi più intensi che abbiano mai incrociato i miei occhi. Ero sulla poltrona, affianco a un mio amico, al mio amico di sempre, avevo 13 anni, e abbiamo pensato “ora gli fa il cucchiaio”.
No.
Ho visto quella palla partire con una violenza illegale e terminare il proprio volo sotto l’incrocio dei pali.
Ho sentito Fabio Caressa, la voce di quel mio mondiale (perché per ognuno è un po’ diverso) ripetere il suo nome dieci volte come a dire “c’è solo un numero per descriverlo” e infine ho sentito il triplice fischio dell’arbitro.
E poi l’ho visto baciare la Coppa a Berlino insieme all’altro romano-romanista che gioca nella Roma e che in quel mondiale, in storie che si intrecciano in maniera tremendamente meravigliosa, l’aveva combinata grossa: Daniele De Rossi, più di un amico.
Sarebbe potuta finire anche lì la sua carriera, a Berlino, a trent’anni: non aveva più nulla da dimostrare, ma otto viti nella caviglia sinistra.
L’ho visto di nuovo in campo
Con più stimoli di prima. Sempre con la stessa maglia, sempre con lo stesso numero, sempre capitano, sempre a inventare: gol, assist, giocate.
L’ho visto capocannoniere della Serie A, l’ho visto Scarpa d’oro. L’ho visto infrangere record su record e perdere non so quanti campionati all’ultima giornata, con la dignità del vero leader.
L’ho visto cambiato. Più maturo, più consapevole, più intelligente, più concreto, più essenziale, più efficace, ma incredibilmente più bello, nonostante la sofferenza: di chi non vince, di chi gioca con un infortunio pesante che ti condiziona per sempre la carriera, di chi sa che non è riuscito – e mai più potrà farlo – a dimostrare appieno il suo valore. Sembra assurdo scriverlo, ma è così. Per mille motivi, per mille bivi, per mille scelte.
L’ho visto segnare a trentotto anni suonati in Champions League. Contro il Manchester City milionario, quello che non è mai stata la sua Roma: il marcatore più anziano della competizione, secondo solo a Ferenc Puskás, colui che ha inventato il mestiere del goleador, se si considera anche la vecchia Coppa Campioni.
L’ho visto sofferente in panchina dopo il secondo e ultimo brutto infortunio della sua carriera. L’ho visto a un passo dal ritiro con l’amaro in bocca. L’ho visto far ricredere tutti con una doppietta in due minuti. L’ho visto togliersi ancora qualche piccola soddisfazione.
Ho visto il Santiago Bernabéu tutto in piedi
Ho visto un uomo
Ho visto i suoi vizi e le sue virtù, i suoi difetti e la sua volontà, i suoi alti e i suoi bassi, le sue sconfitte e le sue vittorie, le sue scorrettezze in campo e la sua lealtà, quella fuori e dentro il campo.
Ho visto il rispetto. Di giocatori, compagni e avversari, di tifosi, propri e altrui, di arbitri e di allenatori.
Ho visto l’ uomo e il calciatore, ho visto l’uomo e il campione, ho visto l’uomo e il fuoriclasse.
Ho visto un uomo.
Ho visto.
Francesco Totti.