Diceva un allenatore argentino: io metto in campo benissimo i giocatori, il guaio è che poi loro si muovono.
Gianni Mura da Non gioco più, me ne vado: gregari e campioni, coppe e bidoni
Nella notte tra giovedì e venerdì, Messi e i suoi compagni di Nazionale hanno lasciato la Bombonera della Boca dopo un terrificante 0-0 contro il Perù. Il pareggio ha evocato mostri lontani dal momento che, a una sola partita di distanza da Russia 2018, per la prima volta dal 1970 l’Argentina deve fare i conti con la matematica per non mancare l’appuntamento con la Coppa più importante del calcio.
La frase di Gianni Mura, in apertura, ci aiuta a far chiarezza su ciò che è accaduto ieri sera. Noi europei, complice la levataccia a cui ci ha costretto il fuso orario, forse non siamo riusciti a comprendere del tutto ciò che è successo a Buenos Aires, nel vecchio quartiere degli immigrati genovesi. La sfida tra ventidue persone provenienti da due nazioni diverse si è infatti tramutata in qualcosa di molto più grande; qualcosa che solamente i sudamericani possono capire.
Nella notte, Argentina-Perù è divenuta una delle più grandi rappresentazioni del realismo magico nel mondo Latino.
Il realismo magico
Realismo magico è un’espressione piuttosto affascinante che descrive quel tipo di narrativa in cui la vita reale si trova improvvisamente a fare i conti con un’esplosione di magia. Giovedì sera, la Federazione Argentina ha fatto di tutto per trasformare la partita in un’impresa epica, con risultati piuttosto interessanti.
La magia è stata ovviamente fornita dalla Bombonera, uno degli impianti più affascinanti e terribili di tutto il mondo. La Federazione aveva deciso di non vendere biglietti alle famiglie e di invitare gli ultrà della “12” del Boca a fare tutto il baccano possibile. Altri piccoli accorgimenti burocratici hanno permesso di ridurre la durata dell’inno nazionale del Perù a un solo minuto (coperto di fischi) e di stiracchiare quello argentino a oltre due minuti e mezzo, trasformandolo in un’evocazione di tutta la Nazione incollata davanti alla tivù.
Persino Messi, che alla Bombonera non aveva mai giocato nella sua carriera, si è commosso.
La cinica realtà
Eppure, dentro il campo, la partita è stata estremamente realista. L’atmosfera indiavolata della Bombonera non è riuscita a penetrare negli equilibri di una partita accuratamente studiata dal Perù. Ma la cosa ancor più rilevante, è che lo 0-0 ha confermato tutti i limiti delle alchimie di Sampaoli che, da quando allena la Selecciòn, non è mai riuscito a far girare i suoi uomini in modo giusto.
L’Argentina fatica a trovare gioco, perde troppi palloni importanti e si affida a Messi come se fosse un Dio sceso in terra. Ma da soli non si può vincere contro tutti, neppure se si è tra i più forti della storia. Gli errori commessi dall’Albiceleste contro il Venezuela nell’ultimo turno si sono ripresentati contro il Perù: sbagli grossolani in fase di impostazione, e soprattutto una preoccupante sterilità offensiva che non trova alcuna giustificazione.
Perché con una rosa come quella argentina (in panchina c’erano Icardi e Dybala; Higuain è rimasto a casa, e la lista potrebbe essere ancora lunga) non si può tollerare il peggior attacco del girone e solamente cinque tiri in porta contro una formazione venuta a Buenos Aires per strappare un pareggio.
Ma, d’altronde, il realismo magico è anche questo: mescolare la sublime misticità della Boca alla scialba prestazione della nazionale. Una miscela prettamente sudamericana.
Resistenza peruviana
Eppure, se l’Argentina non è riuscita a vincere la partita più attesa degli ultimi anni è merito anche del Perù. I biancorossi hanno infatti avuto la fortuna di essere allenati da Ricardo Gareca, argentino irriducibile, che come un cardiologo navigato conosce il cuore della sua nazione e sa come rallentarne il battito.
Cercare di vincere contro l’Argentina nel fortino degli xeneizes era praticamente impossibile; così, i peruviani hanno fatto la sola cosa sensata, ossia disputare una partita all’europea dentro lo stadio più sudamericano di sempre. Il Perù ha ammazzato la mistica della Bombonera presentando una squadra compatta, strettissima e con una densità proibitiva in mezzo al campo, lasciando che il talento argentino si sfogasse senza esito sulle fasce. Neutralizzati Di Maria e il Papu Gomez (entrambi comparse di poco valore, purtroppo) fermare Messi è diventato molto più semplice. Ingabbiata la fonte di gioco (e di speranze) di tutta la Nazione, il Perù ha mandato l’Argentina in default ed è sopravvissuto fino al 90′.
Storie di eroi
Il realismo magico, si sa, ha per protagonisti delle persone normali. Individui qualunque che, a un certo punto della loro vita, vengono travolti da eventi micidiali e inspiegabili. Come i sinistri personaggi di Borges o gli sventurati esseri umani di Marquez.
Anche giovedì sera, alla Bombonera, dei calciatori si sono trasformati in eroi, a loro modo. Sarà stata la mistica dello stadio, o il peso della storia che, minuto dopo minuto, diventava insostenibile. Fatto sta che alcuni giocatori ci hanno regalato delle vicende personali che ricorderemo a lungo.
Gioco io, vi proteggo io
Partiamo da Pedro Gallese, portiere e capitano della formazione peruviana. Un vero condottiero che capisce il momento supremo per il suo popolo e decide heideggerianamente di esserci. Giovedì, il Perù si giocava la possibilità di tornare a un Mondiale dopo quasi trent’anni di scabroso digiuno: il vecchio capitano, allora, sfida la sua lussazione al dito di una mano e scende in campo indossando un paio di guantoni ortopedici, che sembrano più adatti al baseball che al calcio. Dopo un paio di ottimi interventi, il Perù teme il peggio: deviando un tiro di Messi, Gallese rimane a terra. Mentre la Bombonera esulta, i peruviani rimangono col fiato sospeso. Ma, in fondo, sanno che il loro capitano giocherebbe anche col dito rotto. Ed è così: dopo una breve incertezza, Gallese manda via i facchini della squadra medica e rassicura tutti: gioco io – dice – vi proteggo io. E ci riuscirà.
Il destino di Fernando
Ma la storia più struggente viene ancora dall’albiceleste, protagonista dannata della Bombonera. Mentre gli affondi di Messi si spengono uno dopo l’altro, Sampaoli si gioca la carta del cuore: mette dentro Fernando Ruben Gago, vecchia conoscenza del calcio europeo, un trentenne che è nato in casa del Boca Juniors, e che in questo club ha intenzione di finire la carriera.
Ma gli dei del calcio sanno essere terribili. In onore del più alto realismo magico, sacrificano il mediano argentino sull’altare della narrazione.
Dopo tre minuti Gago scende in mezzo ai centrali difensivi per effettuare la più classica salida lavolpiana, ma qualcosa va storto.
Il ginocchio fa crack, è un movimento troppo innaturale per stare sereni. Gago lo sa, in volto ha dipinta una terribile disperazione. Esce dal campo zoppicando, i medici effettuano la prova di Lackmann e gli dicono che il crociato è saltato. Sono immagini che hanno fatto il giro del mondo: Gago è in trance agonistica, sta giocando per la sua gente, tutta l’Argentina è con lui, e uno stupido legamento gli impedisce di dire la sua.
Fatemi giocare, urla in spagnolo. Prova a far finta di niente, a giocare con una fasciatura più psicologica che fisica.
Sbaglia un pallone, rincorre male l’avversario, non ce la può fare. Come un cavaliere che si vede sfuggire l’epica battaglia davanti agli occhi, è costretto a lasciare il campo. Se ci saranno canzoni sull’Argentina alla Bombonera, non parleranno di lui.
Mistica evanescente
Gago è stato centrato dalla sfortuna, Messi ha colpito un palo. Nonostante l’incredibile trasporto dei tifosi, l’Argentina rimane una squadra a metà. Biglia e Banega, oltre il compitino base, andavano in difficoltà costante; Messi accerchiato ha sentito troppo il peso della Nazione. Gomez e Di Maria ci hanno provato, ma hanno fatto troppo poco. Mascherano è sembrato impreciso e le uniche note chiaramente positive sono state quelle sottoscritte dai terzini, Acuna e Mercado, fedelissimi di Sampaoli. L’Argentina-popolo ci ha messo il cuore, ha gridato con quanto fiato aveva. Ma l’Argentina-selezione ha dei limiti evidenti, appare incapace di trovare un equilibrio in campo e si è tristemente confermata.
Foglie morte
Foglie morte è il titolo di un romanzo di Gabriel Garcia Marquez. E l’immagine calza a pennello per descrivere il clima da fallimento che comincia a stringersi sempre più attorno alla Federazione Argentina. Perché i colori autunnali sono i migliori per descrivere l’incubo di rimanere fuori dal Mondiale per la prima volta dopo oltre trent’anni. Messi e compagnia sono sembrati delle foglie morte, rinsecchite, travolte dal vento peruviano e dalle combinazioni matematiche del girone sudamericano.
Eccolo, il paradosso che affligge amleticamente Sampaoli. Una squadra sulla carta fortissima, con un potenziale offensivo letteralmente devastante, che non riesce a trovare una quadratura e crolla marxianamente sotto le proprie contraddizioni.
I giocatori argentini sono delle foglie splendide, affusolate, dai mille colori. Ma deboli, incredibilmente disorganizzate, poco efficaci. Non hanno abbastanza linfa. Forse è colpa di Sampaoli, forse è colpa degli dei del calcio.
E mentre a Buenos Aires comincia la caccia alle streghe, il Perù torna a casa con un risultato storico.
Conclusione
Con occhio razionale, la dinamica della partita ci appare incredibilmente semplice. Se togliamo il trasporto della Bombonera e trasformiamo i novanta minuti in cifre e statistiche, ci accorgiamo di come il Perù abbia resistito alle intimidazioni dell’Argentina, rivelandosi una squadra tutt’altro che debole. I limiti tattici dell’albiceleste sono preoccupanti e anche una eventuale qualificazione al cardiopalma tra le alture dell’Ecuador non dovrebbe lasciare tranquilli. Perché un’Argentina così confusa non potrebbe mai prendersi il Mondiale da protagonista.
Non tutto è perduto, chiaro, ma le foglie morte non hanno voce in capitolo. Seguono il vento, sono inerti, e ben poco altro. L’Argentina ha fallito la missione ma ha un’ultima, disperata, carta. In Ecuador non è in ballo solo la chiave per la Russia. Messi e compagnia si giocheranno la faccia.